I sofistidi Daniele Lo Giudice
Con l'affermarsi della democrazia e della partecipazione ad Atene, che nel corso del V° secolo a.C. era diventata una potenza anche militare oltre che commerciale, vennero ad assumere grande importanza le abilità politiche ed in particolare quelle oratorie.
In tale contesto, la retorica, cioè l'arte di costruire ed esporre discorsi incisivi, persuasivi, coerenti e ben ordinati assunse grande importanza, e con essa crebbe l'interesse per la dialettica, cioè il dialogo vivo, il confronto e lo scontro di posizioni, nonchè l'arte di contendere e di confutare, ovvero l'eristica (che deriva appunto da eris, contesa).
Fu allora che si cominciarono a vedere per Atene degli stranieri, anche se greci, che approfittando dell'occasione e della necessità, aprirono scuole a pagamento per insegnare l'arte di parlare, ed in particolare l'arte di parlare in pubblico ed ottenere i consensi dell'uditorio.
le testimonianze concorrono tutte nella medesima direzione: questi maestri, detti sofisti, furono un prodotto di importazione. Venivano ad Atene da ogni parte della Grecia; solo in un secondo tempo vi fu un'ondata di sofisti ateniesi, ma la loro importanza nella storia del pensiero, con la sola eccezione di Isocrate (il quale, peraltro, prese anche risolutamente posizione contro i sofisti, pur mantenendo moltissime posizioni comuni agli stessi) e, forse, di Antifonte, fu modesta.
I destinatari sociali delle scuole sofistiche non furono tanto i rampolli delle grandi famiglie aristocratiche, quanto i figli dei nuovi ricchi, dei mercanti e degli artigiani più prosperosi. Per stare in società c'era bisogno di cultura ed educazione, c'era bisogno di formarsi come uomini civili, più colti, anche per evitare figuracce.
Non bisogna credere, infatti, che Atene fosse allora già il centro della civiltà greca. Per lungo tempo la più grande città greca fu Mileto, che per ironia della sorte si trovava sulle coste dell'Asia Minore, cioè nell'odierna Turchia.
La stessa filosofia era nata a Mileto. I più grandi filosofi dei primi secoli ebbero i natali a Mileto e nelle vicine città di Samo, come Pitagora, ed Efeso, come Eraclìto.
La comparsa dei sofisti corrispose pertanto ad una sorta di sprovincializzazione di Atene ed è solo grazie a questo processo che si spiega, in parte, la sua ascesa politica, economica, militare e culturale.
Nei libri storici di Tucidide c'è un discorso di tipico impianto sofista: il celebre Epitafio di Pericle, pronunciato in occasione dei funerali dei caduti nella guerra del Peloponneso.
Siamo nel 431 a.C. L'esame dettagliato ci porterebbe troppo lontano dai temi che affrontiamo in questa sede ma, un accenno ci consente, al contrario, di avvicinarci.
Lo storico Domenico Musti ha scritto che l'Epitafio pericleo rappresenta il manifesto della teoria democratica, e questo indipendentemente dal fatto che sia più o meno autentico. Tucidide, che pure non fu un simpatizzante di Pericle, nemmeno un simpatizzante della democrazia, ebbe l'indubbio merito di condensare nel testo le più importanti convinzioni del grande uomo politico ateniese. Sono i pilastri della teoria democratica antica, ed allo stesso tempo le chiavi per comprendere quella moderna.
Non credo di dire una sciocchezza, se affermo che molti sofisti impararono da Pericle e non già che i sofisti, in particolare Protagora, insegnarono a Pericle.
Nell'uomo Pericle e nel suo discorso ognuno può rinvenire sia il meglio che il peggio della retorica politica, in particolare quella degenerazione demagogica che è alla base di tutte le dittature su base popolare, e del consenso di massa che riescono ad ottenere i partiti populisti nelle democrazie.
Ma, sia Tucidide che Aristotele in veste di storico (quello che scrisse la Costituzione degli ateniesi) concordano su un punto: il fenomeno dei demagoghi è successivo a Pericle. Questi non fu mai un demagogo, e il tono, il carattere, il contenuto dell'Epitafio riflette semmai, nei punti più rilevanti, un grandissimo realismo, un fiuto politico eccezionale, un senso del tempo storico e della direzione degli eventi straordinario.
Personalmente ci trovo anche il filosofo politico, quello che seppe anticipare anche alcuni temi importanti nell'etica e nella politica di Aristotele. Ma, questa potrebbe essere un'opinione azzardata.
Quel poco di capacità demagogica che si può evidenziare nel discorso di Pericle sta nella persuasività oratoria. Le stesse cose, dette in altro modo, ad esempio secondo un'asciutto stile filosofico, non avrebbero avuto la medesima efficacia.
Musti sottolinea giustamente che la forza del discorso di Pericle non sta nel rivolgersi al popolo dicendo: "Voi dovete..."
Pericle disse: "Noi siamo già...quello che altri dicono che dovremmo essere."
Ed ancora andrebbe evidenziato il carattere bipartisan, cioè unitario e rappresentativo dei sentimenti potenzialmente presenti in tutti gli ateniesi. Non c'è un filo di polemica diretta con avversari interni. Quando si sottolinea la diversità della condizione ateniese da quella spartana, si dice esplicitamente : "noi siamo così, ovvero più liberi, più indisciplinati, più portati a goderci la vita ed cercare la felicità perchè abbiamo voluto, tutti, essere così. E dove è scritto che noi siamo militarmente meno abili perchè ci rifiutiamo di faticare e soffrire per tutto il giorno e per tutta la vita?"
Che è come dire, è inutile nascondersi dietro all'ipocrisia. Chi parla di perdita degli antichi valori di disciplina e di sacrificio, chi detesta questo spirito di libertà nel quale ognuno è in grado di costruirsi una vita migliore, in realtà vorrebbe solo mantenere il suo privilegio, tenere solo per sé l'opportunità di una vita agiata e costringere gli altri ad una vita di sacrificio.
Pericle insiste su questo punto in modo tale da prestare il fianco a critiche di edonismo e permissivismo. E persino dalle file sofiste, udite udite, vi sarà chi, come Prodico di Ceo, insegnerà e propaganderà idee del tutto opposte. Ma il bersaglio è sbagliato, perchè a ben leggere Pericle, non vi è alcun estremismo edonistico, ma solo l'ideale di una vita equilibrata, inserita in una visione ottimistica e fiduciosa, in netto contrasto con il classico pessimismo greco.
Va compreso che senza il clima di tolleranza e di fiducia realizzatosi sotto Pericle né i sofisti, né altre scuole filosofiche avrebbero potuto trovare spazio ad Atene, una città restia ad accettare le novità ed i nuovi valori, un ambiente nel quale anche i democratici erano fondamentalmente conservatori e tradizionalisti, nonchè molto legati alla religione ufficiale.
Pericle ebbe bisogno dei sofisti, in particolare di Protagora, per dare spessore e penetrazione a quella che potremmo chiamare la sua politica culturale, ed i sofisti, o, almeno, una parte di essi, ebbero bisogno del sostegno e dell'incoraggiamento di Pericle.
Ovviamente non era sufficiente insegnare a saper esporre le proprie idee in modo sintetico, occorreva anche sapere cosa dire in modo persuasivo: i nuovi maestri avevano chiaro che era necessaria una paideia, cioè una cultura umanistica; gli ateniesi dovevano e potevano conoscere un po' meglio la tradizione poetica orale e scritta. In essa si potevano trovare esempi ed argomenti, con essa si rimpinguavano discorsi altrimenti banali e scontati, privi di riferimenti significativi e pregnanti.
La tradizione culturale greca, in particolare quella poetica, era vista come formativa ed educativa.
La parola sofista non ebbe all'inizio un significato dispregiativo, anche se, considerando l'assoluta vicinanza di significato che avrebbe oggi il termine intellettuale, possiamo legittimamente immaginare che la gente comune usava la parola sofista esattamente come oggi usa la parola intellettuale, ovvero con un misto di rispetto, di ammirazione, ma anche di critica. L'intellettuale è spesso un inconcludente chiacchierone, un cavillatore, un piagnone, e tali dovevano apparire moltissimi sofisti, a volte insopportabilmente saccenti, antipatici e parolai.
Possiamo ancora legittimamente immaginare che la gente comune non facesse grandi differenze non solo tra un sofista e l'altro, ma anche tra un sofista di professione ed un amante della sofia, un ricercatore di verità, ovvero un filosofo.
Per la gente erano sofisti anche Anassagora, Socrate, i suoi allievi, come Eschine e lo stesso Platone.
Nella loro specifica posizione, i veri filosofi, distinzione a cui Platone mostrò di tenere molto, cercarono di prendere le distanze dal mucchio dei sofisti, molti dei quali certamente di scarsa levatura morale, oltre che intellettuale, nulla più che avvocaticchi di gente di malaffare.
E il principio della distinzione fu subito chiaro: mentre il vero filosofo è un cercatore di verità, e quindi di principi supremi, il sofista è nient'altro che un facitore di discorsi, persino indifferente ai contenuti ed alle testimonianze che reca pubblicamente.
Ciò che conta è la forma, non il contenuto. Oggi il sofista può parlare persino appassionatamente a favore di una tesi, che so, la pace con Sparta, e domani dire o insegnare a dire esattamente il contrario, e cioè l'esigenza di una guerra.
Ora, tutto questo risulta sconcertante ed imbarazzante anche oggi, figuriamoci allora, in una città particolarmente morigerata come Atene. Il movimento sofista creò dunque anche imbarazzo e fastidio, specie tra i galantuomi del tempo, e non ha molta importanza se essi fossero aristocratici o democratici o persino sostenitori di una tirannia.
Per il tipico galantuomo "tutto d'un pezzo", ancor più che per il vero filosofo di scuola anassagorea o eraclitea, o pitagorica, il sofista rappresentava dunque anche una minaccia all'ordine ed ai costumi, un vero e proprio attentato all'ordinamento morale ed intellettuale della società.
Non credo sia utile, pertanto, credere che la pratica dell'insegnamento a pagamento si diffuse facilmente e senza incontrare ostacoli.
Gli stessi sofisti dovettero in qualche modo darsi delle regole, e professare, almeno esteriormente, una certa castigatezza.
Spesso si presentarono come maestri di virtù. Lo dichiara lo stesso Mario Untersteiner, quando scrive, citando Adolfo Levi, nella Premessa al suo lavoro I sofisti: "tutti sofisti ... dichiaravano d'impartire ai loro discepoli un insegnamento rivolto a finalità insieme individuali e sociali."
Ma a prescindere da questo proposito dichiaratamente comune, l'Untersteiner, come la quasi stragrande maggioranza degli studiosi, afferma con grande chiarezza che nei sofisti "non devesi scorgere una scuola filosofica abbastanza uniforme e coerente."
In realtà ognuno professava una propria visione del mondo e dell'uomo, nutriva personalissime opinioni sugli dei, la religione, i limiti della conoscenza umana; e probabilmente anche sul concetto di virtù, nonostante l'apparente unitarietà, si registrò una gamma molto vasta di posizioni.
Tra il già menzionato Prodico di Ceo e Protagora, non pare esservi nessuna convergenza. Ma anche tra Gorgia e Protagora le differenze e le contrapposizioni, come vedremo, saranno inconciliabili. Antifonte sarà l'antiGorgia per eccellenza, e pure esprimerà una posizione antitetica a quella di Prodico. Ippia, infine, per quanto dipinto da Platone come un vanesio pieno di boria, fu una sorta di mistico dell'idea di giustizia, un bravuomo che seppe comprendere molto della natura umana, e, forse, uno dei pochi democratici convinto, per prima cosa che, se si vuole la democrazia, della necessità di regolarla non in modo arbitrario, secondo convenienze di parte, ma con criteri obiettivi.
Per inquadrare meglio il fenomeno a noi interessa la critica che filosofi posteriori e contemporanei rivolsero ai sofisti.
E' stato osservato che, sotto un certo aspetto, il giudizio di Platone e di Aristotele si è rivelato esageratamente negativo. Per Platone, in particolare, "sofista" divenne sinonimo non già di sapiente, ma di imitatore del vero sapiente, quando non di mistificatore della sapienza a fini di lucro.
Senza dimenticare che chi insegna solo per lucro, quando non abbia l'autorità sufficiente, non può imporsi più di tanto come maestro, ma deve spesso accondiscendere ai capricci ed ai desideri dei propri allievi, onde evitare il licenziamento, è certamente vero che in tutti i sistemi a pagamento si nasconde spesso un sottile gioco nel quale la frode è sempre in agguato.
La lezione si protrae oltre il lecito. Un programma può presentarsi esageratamente lungo e complesso, quando potrebbe essere, al contrario, breve e conciso. C'è sempre un "di più da imparare" e non si sa mai quando arrivi la fine. Insomma, nella propria debolezza di salariato, il sofista non naviga in una condizione aurea ed invidiabile, ma in una precaria dipendenza dal padrone che lo paga, il padre del suo allievo, se lo paga, ed, allo stesso tempo si trova nella necessità di perpetuare all'infinito il proprio compito, onde evitare di trovarsi troppo presto senza lavoro.
A lungo andare, anche nei migliori, animati da una sincera passione o vocazione per l'insegnamento, si può essere infiltrata una forma di sottile ipocrisia.
Platone, che pure non si faceva pagare, ebbe allievi terribili come i tiranni di Siracusa; ma di gente come Dioniso sono piene le strade, le famiglie dei ricchi e dei potenti, come quelle dei poveri e dei deboli. Non possiamo dubitare che pure Aristotele ebbe grandissime difficoltà come precettore di Alessandro Magno, un ragazzo inquieto e smanioso di gloria, anche se, probabilmente, di grande intelligenza.
Ecco, allora, che il problema dei sofisti, tutto sommato, assume una luce diversa, diventa anche il problema della difficoltà dell'insegnante in generale, e dell'insegnante prezzolato in particolare, l'insegnante che deve piacere al padrone di casa ed alla signora, l'uomo che deve agire con tatto, prudenza, sapienza mondana.
Tutto questo avrebbe potuto portare al successo personalità fondamentalmente viscide. Non c'è dubbio, allora, che sulle pesanti considerazioni di Platone ed Aristotele influirono anche questi elementi.
Sarebbe interessante comprendere perchè Protagora incontrò comunque un certo consenso, mentre Anassagora venne rifiutato non solo dagli ateniesi comuni, ma persino da Socrate ( e da Platone).
Lo storico A. Heuss ha osservato che ciò non dipendeva solo dall'ambiente ateniese, ma anche da atteggiamenti intrinseci alle filosofie professate: i filosofi della natura di impronta ionica erano esoterici: le loro conoscenze non erano destinate a tutti.
Al contrario, i sofisti cercavano la pubblicità. "Pur avendo anch'essi teorie complicate, accessibili solo con uno sforzo mentale, ritenevano che almeno le loro conclusioni potessero acquistare una portata più generale, ed in un certo senso avevano ragione.
Anzitutto essi volevano spiegare l'uomo, e quindi questa illuminazione interessava gli uomini stessi. In realtà le loro scoperte erano stimolanti. Mentre i "fisici" avevano decifrato il mondo fenomenico come "natura" (physis), ai loro occhi l'ordinamento umano si stendeva su due piani. Da un lato esso si presentava essenzialmente come il regno della convenzione (thésis), dall'altro rivelava una realtà esistente per natura. Questo smascheramento della società poteva condurre a risultati sorprendenti. Per esempio si diceva che gli uomini seguono un istinto incessante di potenza e che il loro ordinamento sociale non è altro che il prodotto di una scelta arbitraria. Era facile giungere alla conclusione normativa che così, appunto, deve essere e che il più forte, quando prevale, ha sempre il diritto dalla sua parte."
In realtà il problema non è questo. Alcuni sofisti evidenziarono, piuttosto, e forse per primi, che tra natura, o meglio, istinto, e leggi e quindi educazione a rispettare leggi e regole, non vi è coincidenza, ma semmai contrapposizione. L'uomo si trova come tirato da due nature contrapposte, quella che poi Platone chiamerà poi come l'anima concupiscente e quella razionale. Nello spirito di Pericle esse trovano una soluzione armoniosa e compatibile, non deve esistere questo dualismo, di fatto non esiste, noi siamo già diversi!
E questa diversità, dirà ancora Pericle, è sotto i nostri occhi. Per noi non è vergognoso l'essere poveri, è vergognoso il non fare nulla per uscire dalla povertà. Nel rispetto della convivenza civile e delle sue regole, si può lavorare il giusto, faticare il giusto per conseguire benessere. Ogni singolo individuo è responsabile del suo futuro. (Schiavi a parte, ovviamente. Non lo si dimentichi mai.)
Questa teorizzazione implica di per se che il più forte, ma in una civiltà, il più abile, attivo ed intelligente, faccia più strada del meno abile, e questo, indipendentemente dalle sue origini sociali.
Coerentemente con questo impianto teorico, un certo senso della giustizia vorrebbe che a tutti fossero date medesime opportunità educative. E fu questo il limite della teoria periclea della democrazia, perchè non trovò una reale applicazione pratica.
La riduzione al conflitto tra egoisti e solidali che attuarono alcuni sofisti, fu, quindi, una rottura unilaterale, parziale, e, tutto sommato, politicamente irresponsabile, dell'ideologia liberal democratica di Pericle, e quasi un invito alla lotta di classe, da un lato, ed ad un rinchiudersi in una socialmente sterile ricerca del vero bene dall'altro.
Le conseguenze non mancarono di farsi sentire: l'epoca di Socrate e di Platone rispecchiò la degenerazione delle idee e dei costumi, ed è su questa decadenza della civiltà e della democrazia che si sviluppò una grande filosofia.
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