mercoledì 14 ottobre 2009

NAVE DEI VELENI La Marina militare sapeva da tre anni. La Capitaneria di porto aveva ordinato il blocco della pesca Rifiuti di stato sotto il mare

Andrea Palladino
il manifesto.it
Rifiuti di stato sotto il mare
Il relitto di Cetraro, lentamente, sta ritornando nel buio dei fondali. I 500 metri di profondità che lo hanno nascosto per diciassette anni si allungano, diventano inaccessibili. Il rischio del silenzio è dietro l'angolo. Eppure è lì. Eppure nessuno ha smentito la storia delle navi dei veleni. Anzi, man mano che gli archivi risalgono in superficie la lista delle conferme si allunga, si rinsalda.
La prima notizia è pessima: i rifiuti pericolosi al largo di Cetraro ci sono. Due aree vicine alla zona del ritrovamento del relitto dello scorso 12 settembre - una un po' più a nord, l'altra più a est, vicina alla costa - sono contaminate da metalli pesanti: arsenico, cobalto, alluminio e cromo. Tutte sostanze che non possono provenire dalla costa, dove non esistono industrie. Tutte sostanze, quindi, che qualcuno ha gettato in mare.
Non si tratta di studi del governo arrivati in questo mese di attesa. L'individuazione dei residui è del 2006 ed è riportata in una ordinanza della Capitaneria di Porto di Cetraro, la 03/2007. Il documento indica due quadrilateri, vietando la pesca a strascico nelle zone contaminate. La Marina militare, dunque, sapeva dell'esistenza di rifiuti tossici al largo di Cetraro da almeno tre anni. Peccato che quando il procuratore di Paola chiese aiuto per individuare il relitto la risposta fu evasiva: non abbiamo navi da inviare.
E il consulente della Mitrokhin?
C'è poi una seconda notizia, passata inosservata, riportata solo dai quotidiani della Calabria. Sulle navi a perdere è intervenuta una fonte autorevole, l'ammiraglio Bruno Branciforte, da poco a capo dell'Aise - i servizi segreti militari - convocato dal Copasir, il comitato parlamentare per il controllo dei servizi segreti. Secondo quanto riportato dal quotidiano Calabria ora, l'ammiraglio ha confermato l'esistenza di almeno 55 navi utilizzate - in vario modo - per il trasporto illegale di rifiuti. La questione doveva poi essere approfondita in un'altra audizione dedicata, ma di rinvio in rinvio non se ne è saputo più nulla. Eppure le domande da fare a Branciforte non mancano: perché fin dal 1995 si parla di interventi più o meno velati dei servizi segreti nella questione senza, però, avere mai una risposta chiara? E che ruolo hanno avuto personaggi come Scaramella - il mitico consulente della commissione Mitrokhin - o come Aldo Anghessa, apparsi varie volte nelle inchieste degli anni Novanta sulle navi?
Tutto tace
Il silenzio, intanto, è sceso anche sull'inchiesta giudiziaria. A metà settembre il procuratore di Paola Bruno Giordano ha dovuto passare tutte le carte alla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Il pentito Francesco Fonti, con le sue dichiarazioni alla stampa, ha accusato direttamente la 'ndrangheta di tre affondamenti, tra i quali quello del relitto al largo di Cetraro. Fonti è andato, però, oltre, individuando i possibili mandanti ai più alti livelli in diverse interviste. Ed è quindi sconcertante che ancora non abbia deposto davanti ai magistrati, mentre il programma di protezione - che era stato sospeso negli anni scorsi - non è stato ancora riattivato. E come spesso accade in Calabria, i fatti vengono avvolti da una sorta di opacità, che impedisce di capire cosa stia accadendo. Tre magistrati di Catanzaro - Lombardo, Borrelli e Pignatone - lo hanno in realtà convocato nei giorni scorsi a Roma, presso la sede della Direzione nazionale antimafia. Quel giorno, però, l'avvocato di Fonti, Claudia Conidi, era impegnata in un altro processo. «Avevo avvisato i magistrati della Dda con un fax - spiega - ma hanno voluto fare lo stesso l'interrogatorio». Francesco Fonti, a quel punto, non ha voluto proseguire. «Si è sentito insicuro, senza un avvocato di fiducia - continua l'avvocato Conidi -, senza ancora un programma di protezione». E l'attesa deposizione è saltata. Il problema è che - secondo il legale del pentito - i magistrati di Catanzaro non avrebbero intenzione di risentirlo, almeno per il momento. «Il procuratore Borrelli - spiega il legale - mi ha detto che lo sentirà solo se ci sarà una necessità processuale». Per ora le parole pesanti di Fonti non verranno, dunque, messe su un verbale. Preoccupato, il pentito ha preso carta e penna e ha scritto ieri alla procura di Salerno, competente per la vigilanza sull'operato dei magistrati calabresi: «Vuole essere sentito - racconta l'avvocato - con tutte le garanzie, che finora non ha avuto».
C'era una volta l'entusiasmo
Lontanissimi sono quindi i giorni di metà settembre, quando l'entusiasmo del procuratore di Paola Bruno Giordano e dell'assessore regionale all'ambiente Silvio Greco annunciava la svolta nella lunga e complessa storia delle navi dei veleni. I veleni - e questo è certo - rimangono lì, nel mare di Cetraro e sulle colline vicino Amantea. Aspettano che qualcuno scriva i nomi che erano stampati sulle etichette dei fusti, gettati in mare nelle navi a perdere.

lunedì 11 maggio 2009

La filosofia politica di Karl Popper 2

La critica a Comte ed John Stuart Mill
di Renzo Grassano


Una tendenza non è una legge - scrive Popper.
"Una proposizione che affermi l'esistenza di una tendenza è esistenziale, e non universale".
Come già dimostrato, "una legge universale, non afferma l'esistenza di qualcosa... ma afferma l'impossibilità di qualcosa..."
L'importanza logica di tale distinzione ha conseguenze decisive.
Secondo Popper, infatti, potremmo fondare previsioni sociali di valore scientifico su leggi, ma non su tendenze.
«La distinzione famosa fin dai tempi di Comte e di Mill fra le leggi di coesistenza, che corrisponderebbero alla statica, e le leggi di successione corrispondenti alla dinamica, può - ne conveniamo - essere interpretata in un modo ragionevole; cioè, può considerarsi una distinzione fra leggi nella cui formulazione è partecipe il tempo (per esempio leggi che parlano della velocità), e leggi che non hanno nessun riferimento al concetto del tempo. Ma non è precisamente questo che avevano in mente Comte e i suoi seguaci. Dicendo leggi di successione, Comte pensava alle leggi che determinano la successione di una serie dinamica di fenomeni, nell'ordine in cui li osserviamo. Ora è importante rendersi conto che le leggi "dinamiche" di successione, come le pensava Comte, assolutamente non esistono... [...] Ciò che più si avvicina ad esse, e a cui probabilmente pensava, sono fenomeni periodici, come le stagioni, le fasi della luna, le eclissi o magari le oscillazioni del pendolo. Ma queste periodicità, che nella fisica potrebbero essere descritte come dinamiche (benché stazionarie), sarebbero, nel senso comtiano del termine, "statiche" piuttosto che "dinamiche"; in ogni caso ben difficilmente potrebbero essere definite "leggi" (in quanto dipendono dalle speciali condizioni che prevalgono nel sistema solare...) Io le chiamerò "quasi-leggi di successione".» (1)

Dice il filosofo austriaco: «... possiamo sì ipotizzare che ogni successione reale di fenomeni procede secondo leggi di natura, ma è importante che ci rendiamo conto che nessuna sequenza, diciamo, di tre o quattro fenomeni connessi casualmente procede secondo una sola legge di natura. Quando il vento scuote un albero e fa cadere per terra la mela di Newton, nessuno nega che questi eventi possono descriversi nei termini delle leggi causali. Ma non esiste una sola legge, come quella della gravità, né un solo gruppo ben definito di leggi, che possa descrivere la successione concreta degli eventi come una successione di eventi connessi causalmente: oltre alla gravità, dovremmo considerare le leggi che spiegano la pressione del vento, gli scatti del ramo; la tensione nel gambo della mela; i lividi prodotti nella mela dall'urto, i successivi processi chimici, ecc. L'idea che una qualsiasi serie o successione concreta di eventi ( a parte i movimenti del pendolo, o del sistema solare, o esempi simili,) possa essere descritta o spiegata da una sola legge, o da un gruppo ben definito di leggi, è semplicemente sbagliata. Non vi sono né leggi di successione, né leggi di evoluzione.
Eppure, secondo il concetto di Comte e di Mill, le loro leggi di successione determinerebbero una serie di eventi storici, nell'ordine in cui si fossero effettivamente presentati; lo possiamo dedurre dal modo in cui Mill parla di un metodo che "consiste nel tentare di scoprire, per mezzo dello studio e dell'analisi dei fatti generali della storia... la legge del progresso; la quale legge, una volta che fosse, dovrebbe... darci la la possibilità di predire gli eventi futuri, allo stesso modo che, in algebra, dopo appena pochi termini di una serie infinita, possiamo scorgere il principio di regolarità della loro formazione, e predire il resto della serie fino a qualunque numero di termini. Verso questo metodo mantiene un atteggiamento critico: ma la sua critica (vedi il principio del paragrafo 28) ammette ampiamente la possibilità di trovare leggi di successione analoghe a quelle delle serie matematiche, sebbene esprima il dubbio che "l'ordine di successione..., che la storia ci presenta" non sia così "rigidamente uniforme" da essere comparato con una serie matematica.» (1)

Dopo aver riconosciuto, comunque, a Comte ed a Mill qualche merito in campo epistemologico, in particolare per la critica all'essenzialismo(2), Popper chiude convinto di dare una lezione quasi definitiva, spiegando che rimane fondamentale il metodo.
Quando si raccolgono dati (prove, fatti, serie di fatti, in questo caso eventi storici, ndr) per arrivare a qualche conclusione circa il loro significato, non basta cominciare con delle osservazioni, come pensano alcuni studiosi. «... è necessario che sorga un nostro interesse rispetto ai dati di una certa storia: prima di tutto si presenta sempre il problema. Il problema a sua volta può essere suggerito da necessità pratiche, o da credenze scientifiche o prescientifiche che per una ragione qualsiasi sembrino aver bisogno di una revisione.» (1)

In una lunga e rigorosa disamina del pensiero di Mill circa la spiegazione, intendendo la spiegazione causale, Popper perviene ad una prima conclusione: tra il suo pensiero e quello di Mill "non c'è molta differenza per quel che riguarda la riduzione di leggi ad altre leggi più generali, cioè per la spiegazione causale di regolarità".
Però, Mill fa un "uso non chiaro" del termine causa. Se ne serve sia per denotare leggi universali, sia per evidenziare eventi singolari.
Questo crea confusione e porta Mill ad un errore grossolano: ad ignorare, cioè, che il persistere di tendenze è strettamente connesso alle condizioni iniziali che hanno reso possibile la tendenza stessa. «Mill e i suoi compagni storicisti non hanno notato la dipendenza delle tendenze dalle condizioni iniziali. Adoperano leggi come se fossero leggi assolute. La confusione che fanno tra leggi e tendenze fa sì che essi credano in tendenze non condizionali ( e quindi generali); oppure potremmo dire, in tendenze assolute; per esempio, in una tendenza storica generale verso il progresso - "una tendenza verso uno stato migliore e più felice"...
[...] Ecco, possiamo dire, l'errore centrale dello storicismo. Le sue "leggi dello sviluppo" si rivelano essere tendenze assolute, tendenze come leggi, che non dipendono dalle condizioni iniziali, e che irresistibilmente ci trascinano in una certa direzione nel futuro.» (1)

Proseguendo, Popper dedica ampio spazio alla comparazione tra i metodi delle scienze fisiche e quelli delle scienze sociali, finendo col parlare della propria concezione epistemologica. In particolare, insiste sull'importanza delle prove sperimentali. Ma c'è un passaggio saliente che merita la citazione in quanto evidenzia il rigore impiegato nella ricostruzione logica della nascita di una teoria: «Importa... rendersi conto che nella scienza dobbiamo sempre occuparci di spiegazioni, previsioni, esperimenti, e che il metodo di cui ci serviamo per provare le ipotesi è nella sua parte principale invariabile [...] : dalle ipotesi sotto esame - per esempio una legge universale - unitamente ad alcune altre proposizioni all'uopo accettate senza discussione - per esempio delle condizioni iniziali - deduciamo una prognosi. Questa prognosi poi la confrontiamo, tutte le volte che sia possibile, con il risultato di osservazioni sperimentali o di altra natura. Se la prognosi e le osservazioni concordano, l'ipotesi si considera convalidata, seppure non confermata del tutto; se sono palesemente discordi, l'ipotesi si considera confutata, e la sua falsità provata.
Secondo questa analisi non vi è molta differenza tra la spiegazione, la previsione e la sperimentazione. Si tratta di una differenza non di struttura logica, ma di enfasi; dipende da che cosa consideriamo problematico. Se consideriamo non problematica la prognosi e invece problematiche le condizioni iniziali o alcune delle leggi universali ( o tutte e due) da cui poter dedurre una data "prognosi" allora diciamo che si tratta di una spiegazione ( e la prognosi diventa allora l'explicandum). Se consideriamo non problematiche le leggi e le condizioni iniziali e ce ne serviamo soltanto per dedurre la prognosi al fine di ottenere delle nuove conoscenze, diciamo che si tratta di una previsione. (E questo il caso in cui applichiamo i nostri risultati scientifici.) E se consideriamo problematica una delle premesse, cioè, o una legge universale o una condizione iniziale, e se la prognosi può essere determinata dall'esperienza, allora diciamo di aver sottoposto la premessa problematica a prove sperimentali. » (1)

E qui veniamo al cuore della concezione popperiana, molto simile a quella che abbiamo già visto nei files su von Hajek.
Dopo aver affermato che il come è stata trovata una teoria è un fatto di natura del tutto privata (mah?!), Popper afferma che è, piuttosto, importante la domanda "come hai provato la tua teoria?". E' la sola domanda che importa dal punto di vista scientifico. (altro mah?!)
E spiega: «Ora, io sono persuaso che tutto ciò vale non solo per le scienze naturali, ma anche per quelle sociali. E nelle scienze sociali è ancora più evidente che in quelle naturali che non possiamo vedere ed osservare i nostri oggetti prima di aver pensato ad essi. Infatti la maggior parte degli oggetti della scienza sociale, se non tutti, sono astratti; sono costruzioni teoretiche. (Ad alcuni sembrerà strano, ma perfino "la guerra" o "l'esercito" sono concetti astratti. Uomini uccisi, uomini in divisa, ecc. - ecco ciò che è concreto.)
Questi oggetti, queste costruzioni teoretiche di cui ci serviamo per interpretare le nostre esperienze, risultano dalla costruzione di certi modelli (specialmente di istituzioni), per spiegare certe esperienze - un metodo teorico ben noto nelle scienze naturali (nelle quali costruiamo modelli di atomi, molecole, solidi, liquidi, ecc.), e che fa anche parte del metodo di spiegazione per mezzo della riduzione o della deduzione di ipotesi. E' vero che spessissimo non ci rendiamo conto che stiamo adoperando delle teorie, e che ci illudiamo che i nostri modelli teorici siano delle "cose", ma questo è un genere di errore comunissimo. Questo uso di modelli spiega, ed allo stesso tempo distrugge, le tesi dell'essenzialismo metodologico. Le spiega, perché il modello è di carattere astratto o teoretico, e noi facilmente crediamo di vederlo in mezzo al mutare degli eventi osservabili o dietro ad essi, come una specie di spettro permanente o di essenze. E le distrugge perché il compito di una teoria sociale è di costruire ed analizzare i nostri modelli sociologici attentamente in termini descrittivi nominalisti, cioè in termini di individui, dei loro atteggiamenti, delle loro speranze, dei loro rapporti, ecc. - postulato che possiamo chiamare "individualismo metodologico. (che abbiamo già visto in von Hajek, ndr) » (1)
Non a caso, Popper cita von Hajek riprendendo paragrafi piuttosto lunghi, per arrivare comunque ad affermare un'unità di metodo tra scienze naturali e scienze sociali, pur ammettendo alcune differenze.
Nel prossimo capitolo vedremo meglio questi aspetti della teoria popperiana concernenti il metodo.
note:
(1) Karl Raimund Popper - Miseria dello storicismo - Feltrinelli 1975
(2) essenzialismo è dottrina di derivazione aristotelica e consiste nell'approcciare ogni fenomeno ed ogni esistente con la domanda "che cos'è?", provocando così una risposta di tipo descrittivo con la pretesa di arrivare ad una definizione che esprima l'essenza di qualcosa. Ad esempio, per Aristotele l'uomo è animale bipede, razionale, politico (nel senso di socievole e cooperativo, ma anche di schiavista... ehm) Popper si proclama "nominalista", cioè fiero oppositore dell'essenzialismo. Per un nominalista i fenomeni si possono solo descrivere, ma non si può dire che cosa sia, ad esempio, un uomo, o cosa sia la "luce". Il nominalismo è di fatto una conseguenza della nascita della scienza moderna, a partire da Galileo e da Newton.

martedì 14 aprile 2009

La filosofia politica di Karl Popper

La società aperta ed i suoi nemici
a cura di Renzo Grassano



La società aperta ed i suoi nemici fu pubblicata nel 1945. Lo scritto maturò durante il lungo periodo di esilio di Popper in Nuova Zelanda ed è certamente il suo "capolavoro" di filosofia della politica.
Le radici del totalitarismo vengono individuate ancora una volta nello storicismo, soprattutto quello hegeliano, ma affondano nell'alba della filosofia, in autori quali Esiodo, Eraclìto, Platone, lo stesso Aristotele, ritenuto colpevole di essenzialismo. I grandi bersagli polemici sono comunque nazismo e comunismo, le teorie della razza ed il pensiero di Marx.
La manifestazione più evidente del totalitarismo è la società chiusa, di stampo tribale e collettivista, dominata dai tabu, dove la vita degli individui è regolata da norme rigide imposte d'autorità. «Una società chiusa assomiglia ad un gregge o a una tribù per il fatto che è un'unità semi-organica i cui membri sono tenuti insieme da vincoli.» Al contrario, la società aperta è quella nella quale gli uomini sono liberi di assumere il timone della loro vita, liberi di manifestare un atteggiamento critico, liberi di basare le loro decisioni sull'autorità della propria intelligenza.
La distinzione tra società chiusa e società aperta fu mutuata dal filosofo francese Bergson, il quale, comunque, lo aveva utilizzato in uno schema di pensiero diverso.

La questione che tutti si pongono è stata sempre: "chi deve governare?" Questa domanda ha provocato risposte definiti sterili, tipo: i migliori, i filosofi, un sovrano illuminato, il popolo, la razza superiore. Si tratta anche di una risposta falsa perché presuppone governanti buoni ed onesti. Per Popper occorre liberarsi di questa domanda, superandola con un'altra: «Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi ed incompetenti facciano troppo danno?»
Serve un controllo istituzionale dei governanti. Solo attuandolo risolveremo il paradosso delle democrazie, ovvero il paradosso di un popolo che sceglie la tirannide, come è accaduto in Germania con l'avvento di Hitler.

Popper tracciò una linea di demarcazione tra totalitarismo e libertà che si espresse in una netta distinzione tra dittatura e democrazia.
Scriveva in proposito:«1. La democrazia non può compiutamente caratterizzarsi solo come governo della maggioranza, benché l'istituzione delle elezioni generali sia della massima importanza. Infatti una maggioranza può governare in maniera tirannica (la maggioranza di coloro che hanno una statura inferiore a 6 piedi può decidere che sia di coloro che hanno una statura superiore a sei piedi a pagare tutte le tasse). In una democrazia i poteri dei governanti devono essere limitati ed il criterio della democrazia è questo: in una democrazia i governanti - cioè il governo - possono essere licenziati senza spargimenti di sangue. Quindi se gli uomini al potere non salvaguardano quelle istituzioni che assicurano alla minoranza la possibilità di lavorare per un cambiamento pacifico, il loro governo è una tirannia.
2. Dobbiamo distinguere soltanto fra due forme di governo, cioè quello che possiede istituzioni di questo genere e tutti gli altri; vale a dire fra democrazia e tirannide.
3. Una costituzione democratica consistente deve escludere soltanto un tipo di cambiamento che mettere in pericolo il suo carattere democratico.
4. In una democrazia, l'integrale protezione delle minoranze non deve estendersi a coloro che violano la legge e specialmente a coloro che incitano gli altri al rovesciamento violento della democrazia.
5. Una linea politica volta all'instaurazione di istituzioni intese alla salvaguardia della democrazia deve sempre operare in base al presupposto che ci possano essere tendenze anti-democratiche latenti sia tra i governati che tra i governanti.
6. Se la democrazia è distrutta, tutti i diritti saranno distrutti; anche se fossero mantenuti certi vantaggi economici goduti dai governati, essi lo avrebbero solo sulla base della rassegnazione.
7. La democrazia offre un prezioso campo di battaglia per qualsiasi riforma ragionevole dato che essa permette l'attuazione di riforme senza violenza. Ma se la prevenzione della democrazia non diventa la preoccupazione preminente in ogni battaglia particolare condotta su questo campo di battaglia, le tendenze anti-democratiche latenti che sono sempre presenti ( e che fanno appello a coloro che soffrono sotto l'effetto stressante della società...) possono provocare il crollo della democrazia. Se la comprensione di questi principi non è ancora sufficientemente sviluppata, bisogna promuoverla. La linea politica opposta può riuscire fatale; essa può comportare la perdita della battaglia più importante, che è la battaglia per la stessa democrazia.»

In altre parole, è evidente che in una società aperta le istituzioni non possono permettere ai prepotenti ed ai potenti di schiavizzare i mansueti: e questo è un limite alla libertà, che non può essere illimitata. Ma c'è un limite anche alla tolleranza: se noi la estendiamo agli intolleranti, se non siamo disposti a proteggere una società tollerante contro l'attacco degli intolleranti «allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi.» Ma ciò non è valido sempre, e queste parole servono più come un orientamento nei momenti cruciali di un eventuale attacco alla democrazia. Infatti, dice ancora Popper, la soppressione è la meno saggia delle decisioni. «Ma si deve proclamare il diritto di sopprimere gli intolleranti, se necessario anche ricorrendo alla forza, qualora essi, ripudiando ogni argomento "ricorrano all'uso dei pugni e delle pistole".»

Tra le procedure democratiche e le regole metodologiche della scienza, secondo Popper, dovrebbe realizzarsi una specie di analogia fondata sulla evidente congruenza delle situazioni: sia nell'attività scientifica che nelle attività politiche si cerca il modo di risolvere problemi. Ed anche in politica occorre fantasia, creatività, occorrono nuove ipotesi da falsificare, cioè da sottoporre ad un controllo rigoroso. Anche in politica, come s'è visto la questione della controllabilità è cruciale. Ed anche in politica il dogmatico è colui che è illuso di avere una verità definitiva, e non si rende conto che nuovi fatti, nuove scoperte, l'affermarsi di nuove ipotesi possano smentirla.

In La società aperta ed i suoi nemici abbiamo un ulteriore attacco allo storicismo che questa volta si precisa, anche coraggiosamente (visto che Popper era di orgine ebraica ed era in esilio perché perseguitato dai nazisti), contro la teoria teologica del popolo eletto. Egli contesta apertamente l'idea che Dio scelga un popolo per attuare i suoi disegni. E' evidente che tale critica si estende anche a coloro che sostituiscono la natura o qualocos'altro, a Dio.
Le ragioni dello storicismo profetico vanno dunque cercate nell'antichità, nello stesso pensiero filosofico, in uomini che come Esiodo ed Eraclìto hanno forzato la mano della storia interpretandola in modo dogmatico e definitivo. Dopo aver definito Esiodo il poeta della decadenza dell'umanità ed Eraclìto il teorico dell'immutabile legge del mutamento, Popper si scaglia contro Platone, che è poi il contrario di Eraclìto, ovvero il teorico di un modo di pensare secondo cui «il cambiamento è male e la stasi è divina.» Secondo Popper Platone fu un reazionario collocato apertamente contro le novità della democrazia ateniese, su posizioni sostanzialmente ostili a quelle dei democratici eredi di Pericle.
Anche Aristotele non è risparmiato: l'accusa è quella di essenzialismo metodologico, ovvero un modo di pensare che ha seriamente compromesso la scienza e la filosofia per secoli. Compito della scienza è infatti non ripondere alla domanda che cos'è la materia? ma decrivere il comportamento dei fenomeni: «Così la concezione scientifica della definizione "un cucciolo è un cane giovane" sarebbe che essa è una risposta alla domanda " che cosa è che chiamiamo un cane giovane?" piuttosto che alla domanda "che cos'è un cucciolo?» In sostanza, dice Popper, la scienza non persegue una spiegazione ultima e quindi non è essenzialista.
Al contrario, nelle scienze sociali permane l'essenzialismo vecchia maniera, ed il marxismo ne è l'esempio più importante.
Prima di arrivare a Marx, Popper svolge una spietata critica di Hegel, il padre dello storicismo e del totalitarismi moderni.
Gli aspetti illiberali del pensiero di Hegel sono: il culto platonizzante dello stato; la mentalità tribale e collettivista; il rifiuto di un principio etico al di sopra dello stato e la risoluzione della morale nella politica; il concetto che il solo criterio possibile di giudizio nei confronti dello stato sia il successo storico-mondiale delle sue politiche. Infine la teoria che lo stato possa esistere solo mediante la guerra, con l'aggravante della tesi di una nazione eletta a fungere di volta in volta da guida. Infine la teoria del Grande Uomo e della Personalità storica mondiale. Tutto questo, secondo Popper, fu ereditato e realizzato dal nazismo.
Inoltre, Hegel fu intellettualmente e moralmente disonesto:« Hegel realizzò le cose più miracolose. Logico sommo, fu un gioco da bambini per i suoi efficacissimi metodi dialettici estrarre conigli fisici da cappelli puramente metafisici.»

Rispetto a Marx, va notata una posizione di maggiore rispetto, anche perché non va dimenticato che Popper fu inizialmente attratto dalle idee socialiste.
Ma anche con Marx la critica è spietata. L'attacco al comunismo avviene in prima battuta come un processo di tipo epistemologico. «Credo che sia assolutamente corretto sostenere che il marxismo è, fondamentalmente, un metodo. Ma è sbagliato credere che, in quanto metodo, debba essere al riparo di ogni attacco. La verità è, più semplicemente, che chiunque intenda giudicare il marxismo, deve metterlo alla prova e citarlo in quanto metodo, cioè deve valutarlo in base a criteri metodologici. Deve insomma chiedersi se è un metodo fecondo o sterile, cioè se è o non è capace di favorire il compito della scienza.»
Popper ritiene corretto, valido e persino giusto ritenere fondamentali le condizioni economiche per una valutazione dei processi storici. Ma, secondo lui, Marx ha preso troppo sul serio il termine fondamentale. E' essenzialismo, e come tale, non è migliore di tutti gli altri. La concezione dello stato di Marx, ad esempio, è essenzialistica, risponde cioè alla classica domanda: che cos'è 'stato'? E se la risposta classica è: la forma di organizzazione del dominio della classe borghese sulla società, nascono da questo atteggiamento gravi conseguenze quali la svalutazione della politica a vantaggio dell'economia ed anche il disprezzo per la democrazia formale.
Popper è convinto, in sostanza che, alla luce di quanto è andato maturando nello sviluppo sociale, il potere politico sia autonomo da quello economico, ed in qualche modo possa anche condizionarlo. La svalutazione del politico, nel marxismo, ha portato a concezioni dogmatiche che hanno ostacolato il riformismo.
In netta controtendenza rispetto al pensiero del suo amico F. A. von Hajek , Popper fu infatti un convinto assertore del ruolo dello stato e della politica nell'economia, per certi aspetti vicino alla sinistra moderata.
Secondo Popper infatti il potere politico ha il dovere di controllare il potere economico: «Ciò significa un'enorme estensione del campo delle attività politiche. Noi possiamo chiederci che cosa vogliamo conseguire e come possiamo conseguirlo. Possiamo, per esempio, attuare un razionale programma politico per la protezione degli economicamente deboli. Possiamo fare leggi atte a limitare lo sfruttamento. Possiamo limitare la giornata lavorativa, ma possiamo fare anche molto di più. Per legge, possiamo assicurare i lavoratori ( o meglio ancora, tutti i cittadini) contro l'invalidità, la disoccupazione, la vecchiaia. In questo modo possiamo rendere impossibili certe forme di sfruttamento come quelle fondate sulla debole posizione economica di un lavoratore che deve accettare qualunque cosa per non morire di fame... [...]
Il potere politico e il suo controllo è tutto. Al potere economico non si deve permettere di dominare il potere politico; se necessario, esso deve essere combattuto dal potere politico e ricondotto sotto il suo controllo.»
Sono posizioni condivisibili da una sinistra meno viziata dal pregiudizio ideologico. Il problema è che in Italia il pensiero politico di Popper ha faticato, non dico ad imporsi, ma semplicemente a proporsi data l'egemonia delle correnti storiciste-marxiste nella vita culturale.
Personalmente le condivido, anche se non le ritengo particolamente adatte alla situazione attuale del nostro paese, che ha bisogno di un patto tra i produttori in grado di purificare la politica ed arginare il potere della grande finanza, di meno stato e più mercato, di riforme che non distruggano la stato però, a vantaggio di pasticci come il senato federale.
Nel prossimo capitolo vedremo gli sviluppi della critica popperiana a Marx.

giovedì 5 marzo 2009

Anna Foa: radici e fragilità del negazionismo

RomaSette 05 marzo 2009

Anna Foa, collaboratrice ebrea dell’OSS. Romano... contro Williamnson e i complottisti

La storica protagonista di un incontro organizzato dalla parrocchia di Santa Maria ai Monti. Dietro a queste prese di posizione la «teoria del complotto» di Francesco Lalli

Com’è possibile che negli Stati Uniti, che hanno combattuto il nazismo, si siano potute sviluppare teorie negazioniste? Come si può negare l’esistenza della Shoah e in che modo si pone la Chiesa di fronte a tutto questo? Sono solo alcune delle domande che un gruppo di ragazzi tra i 14 e i 17 anni ha rivolto ad Anna Foa, storica e collaboratrice dell’Osservatore Romano, durante l’incontro sul tema del negazionismo organizzato venerdì 6 febbraio dalla parrocchia di Santa Maria ai Monti.

Un doppio appuntamento, il primo dedicato ai giovani e il secondo agli adulti, per spiegare con un duplice registro un fenomeno preoccupante balzato nuovamente sulle prime pagine dei giornali dopo le dichiarazioni del vescovo Williamson, esponente della Fraternità di San Pio X. «Nel gruppo di liceali che ogni venerdì sera s’incontra in parrocchia – racconta il parroco don Federico Corrubolo – era emersa una necessità di comprendere meglio la vicenda che ha coinvolto il vescovo lefebvriano Williamson. I giovani oggi sono abituati a navigare su internet dove ogni teoria, anche quella priva di fondamento, rischia di trovare una sua visibilità. Di conseguenza abbiamo pensato a un incontro che potesse chiarire alcuni dei quesiti sollevati dai ragazzi stessi».

Scelta non casuale, dal momento che l’incontro si è tenuto nell’ex casa dei catecumeni, un’istituzione deputata, dalla metà del Cinquecento e fino agli inizi del Novecento, alla conversione e al battesimo degli ebrei. «Molti qui hanno trovato la fede, ma molti anche un cumulo di sofferenze morali – sottolinea il parroco – e con il riesplodere della questione negazionista ho sentito una triplice motivazione ad organizzare proprio in questa sede questo evento. In primo luogo un dovere da studioso, perché nulla ferisce di più della verità negata; in secondo luogo un dovere pastorale e in terza battuta il dovere di rendere omaggio a tutti quegli ebrei che qui hanno affermato la loro libertà di coscienza, rifiutando la conversione e aiutandoci a vivere come Chiesa cattolica l’esperienza dell’alterità e del confronto».

Dopo aver ricordato i primi passi mossi dal negazionismo in Francia, negli ambienti di destra vicini alla Repubblica di Vichy, e il riaffiorare del fenomeno nel corso degli anni Settanta – stavolta per opera di una frangia d’estrema sinistra – Anna Foa evidenzia gli elementi che caratterizzano nel contempo la forza e la grande fragilità del negazionismo. «Molti tra i negazionisti si definiscono storici pur non avendone alcun titolo – osserva –. Confrontarsi su un piano realmente storiografico con la verità di prove, testimonianze, memoriali, manoscritti, sarebbe per loro del tutto impossibile e, di conseguenza, portano avanti una battaglia che non si fonda su una diversa interpretazione del materiale documentario, ma sulla sua negazione».

La conseguenza di questo “no” espresso nei confronti delle fonti e il tentativo di screditarle o di smontarle una per una, si regge a sua volta su un elemento che non smette di affascinare la mentalità contemporanea: «Si tratta – spiega Foa – della teoria del complotto. L’insieme delle prove a favore dell’Olocausto sarebbe il frutto di un complotto, appunto, ordito dagli ebrei e dagli stati vincitori della Seconda guerra mondiale. Se si unisce tutto ciò all’elemento trasgressivo che il revisionismo negazionista porta con se e al fondo potentemente antisionista che lo alimenta, capiamo perché queste prese di posizione continuino a ritornare ciclicamente alla ribalta riscuotendo anche una certa adesione».

Rischia così di ritornare pericolosamente attuale la profezia di quei nazisti che, di fronte alla vastità del male compiuto e del genocidio perpetrato, dissero a quanti erano prigionieri dei campi di concentramento: «Il mondo non vi crederà mai».

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Roma Sette