martedì 2 luglio 2013

Epicuro

Epicuro
di Daniele Lo Giudice

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Il vivo interesse che specie tra i poco informati delle cose di filosofia, e sono purtroppo molti, si incontra per Epicuro, è forse dovuto ad un gravissimo fraintendimento.
Preso a modello di un'etica del piacere dei sensi e di una vita votata a fuggire i dispiaceri, epicureo è diventato sinonimo di gaudente e di edonista, quando non di persona frivola e superficiale, priva di spiritualità e totalmente disimpegnata socialmente e politicamente. Epicureo in molti casi equivale anche a materialista e non giurerei sul fatto che qualcuno si sia sentito in diritto di usarlo in senso spregiativo.
Di vero in questa vulgata caricaturale c'è ben poco, anche se, qualcosa c'è. Ma prima di vedere il lato negativo o discutibile, cerchiamo di capire bene il lato positivo.
Epicuro disse davvero cose nuove sulla vita, parlò del "piacere di esistere", riconoscendo ed affermando il valore della vita in sé, ovvero qualcosa che nella filosofia greca precedente non era apparso in modo del tutto chiaro.
Oserei dire che nella vulgata su Epicuro solo la considerazione sul disimpegno politico risponde a verità, ma sarebbe sbagliato vederla come una originale massima epicurea. In realtà, già Aristotele aveva affermato la superiorità della vita contemplativa, cioè teoretica e filosofica, su quella attiva, e quindi anche politica.
Di veramente nuovo, in Epicuro, comparve semmai un parziale svilimento della stessa vita teoretica. L'aristotelico doc, il peripatetico più conseguente condivedeva con i suoi simili ed i suoi amici una passione smisurata per la conoscenza e per la ricerca. La sua vita era ricerca, curiosità insaziabile per i fenomeni naturali, per le teorie filosofiche, per le conquiste della medicina, le scoperte matematiche o le costituzioni politiche. Vita contemplativa, certo, ma attivissima ed instancabile.

In Epicuro il lato cognitivo della vita contemplativa è rigettato sullo sfondo, in modo quasi isocratico. C'è un sapere utile alla felicità ed un sapere inutile, anzi dannoso.
Un affanno, un fardello di dolori e fatiche.
La filosofia è la via per liberarsi di questi affanni e di queste ansie: è uno strumento per raggiungere la felicità. Per questo, anche la ricerca scientifica ha un carattere limitato. Non muove dal desiderio della verità, ma dal bisogno di liberarsi di tutto ciò che è motivo di inquietudine.
"Se non fossimo turbati dal pensiero delle cose celesti e dalla morte - scrisse - e dal non conoscere i limiti del dolore e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura." Parole che mostrano un certo disprezzo per la curiosità ed il desiderio della conoscenza in sé, come se tutto il bisogno di conoscere nascesse dalla paura dell'ignoto.
Questa massima esprime in modo chiarissimo il pensiero fondamentale di Epicuro circa scienza e filosofia. Il loro compito esclusivo è liberare gli uomini dalla superstizione, in primo luogo dal timore degli dei e del soprannaturale. Poi dal timore della morte. "Gli dei non si occupano delle faccende umane." "...quando ci siamo noi, la morte non c'è. Quando c'è la morte, non ci siamo noi." Così, nella lettera a Meneceo, uno dei pochi scritti di Epicuro che possediamo per intero, viene risolto laconicamente il problema.

«Abìtuati a pensare che per noi uomini la morte è nulla - scriveva Epicuro - perché ogni bene e ogni male consiste nella sensazione, e la morte è assenza di sensazioni. Quindi il capir bene che la morte è niente per noi rende felice la vita mortale, non perché questo aggiunga infinito tempo alla vita, ma perché toglie il desiderio dell'immortalità. Infatti non c'è nulla da temere nella vita se si è veramente convinti che non c'è niente da temere nel non vivere più. Ed è sciocco anche temere la morte perché è doloroso attenderla, anche se poi non porta dolore. La morte infatti quando sarà presente non ci darà dolore, ed è quindi sciocco lasciare che la morte ci porti dolore mentre l'attendiamo. Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c'è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci. » (1)

Il sapere e la ricerca hanno una finalità pratica; essa non ha un valore in sè, non è il fine dell'uomo, perchè è il benessere dell'uomo il vero fine. Da Aristotele, se è vero che Epicuro frequentò il Liceo quando giunse ad Atene, diciottenne, trasse dunque una visione molto parziale del problema esistenziale. L'uomo di eccellenza non cerca di liberarsi dagli affanni materiali della vita e dalle angosce dell'anima per avere il tempo di studiare e filosofare, ma si limita ad usare questo tempo per fuggire il dolore e trovare il vero piacere, che altro non è che la liberazione del dolore.
Si dice anche che Epicuro frequentò qualche lezione di Senocrate, il successore di Platone alla guida dell'Accademia. Di certo non ne condivise la teoria della conoscenza, teoria per la quale la sensazione è sempre sia vera (per un verso) che fallace ed ingannevole per un altro. Di certo non ne condivise nemmeno la presunta superiorità del vero sapere sull'opinione.
Epicuro, infatti, affermò che la sensazione è sempre vera, ed è l'unica forma di conoscenza che possediamo. In questo fu seguito dagli stoici, che pure contesteranno la sua visione delle cose, evidenziando che la scelta etica si fa per amore della virtù.
Già da queste scarne annotazioni appare quindi che l'etica di Epicuro ha un carattere consolatorio-terapeutico e mirerebbe più ad insegnare una saggezza ed un'arte di vivere che una vera filosofia.
Potremmo pensare che essa fu una risposta ad una sorta di domanda sociale, espressa dall'inquietudine, dall'angoscia e dalla stanchezza. Abituati a pensare che le nevrosi siano un fenomeno del tutto moderno, anzi contemporaneo, forse non abbiamo mai considerato che da quando mondo è mondo l'individuo umano è perseguitato da incertezze, dubbi, paure di ogni tipo, e che molte di queste sono inconsce o rimosse.

Vediamo meglio in cosa consisteva la terapia dell'anima patrocinata da Epicuro.
Scriveva: «Per questo motivo noi diciamo che il piacere è il principio ed il fine di una vita felice. Noi sappiamo che esso è il bene primo, connaturato con noi stessi, e da esso prende l'avvio ogni nostra scelta e in base ad esso giudichiamo ogni bene, ponendo come norma le nostre affezioni. Ma proprio perché esso è il bene primo ed è a noi connaturato, noi non ci lasciamo attrarre da tutti i piaceri; al contrario, ne allontaniamo molti da noi quando da essi seguano dei fastidi più grandi del piacere stesso. Allo stesso modo consideriamo molti dolori preferibili ai piaceri quando la scelta di sopportare il dolore porta con sé come conseguenza dei piaceri maggiori. Tutti i piaceri quindi che per loro natura sono a noi congeniali sono certamente un bene; tuttavia non dobbiamo accettarli tutti. Allo stesso modo tutti i dolori sono un male, ma non dobbiamo cercare di sfuggire a tutti loro. Queste scelte vanno fatte in base al calcolo ed alla valutazione degli utili. Per esperienza sappiamo infatti che a volte il bene è per noi un male ed al contrario il male è un bene. Consideriamo un grande bene l'indipendenza dai desideri non perché sia necessario avere sempre soltanto poco, ma perché se non abbiamo molto sappiamo accontentarci del poco. Siamo profondamente convinti che gode dell'abbondanza con maggiore dolcezza chi meno ha bisogno di essa e che tutto ciò che la natura richiede lo si può ottenere facilmente, mentre ciò che è vano è difficile da ottenere. Infatti, in quanto entrambi eliminano il dolore della fame, un cibo frugale o un pasto sontuoso danno un piacere eguale, e pane e acqua danno il piacere più pieno quando saziano chi ha fame. L'abituarsi ai cibi semplici ed ai pasti frugali da un lato è un bene per la salute, dall'altro rende l'uomo attento alle autentiche esigenze della vita; e così quando di tanto in tanto ci capita di trovarci nell'abbondanza, sappiamo valutarla nel suo giusto valore e sappiamo essere forti nei confronti della fortuna. »

Pierre Hadot nel suo stimolante ritratto della filosofia antica (2) afferma con decisione che il punto di partenza dell'epicureismo sta nell'esperienza della carne: «Grida la carne: non aver fame, non aver sete, non aver freddo; chi abbia queste cose e speri di averle, anche con Zeus può gareggiare in felicità.» (3)
« Qui la carne - scrive Hadot - non è una parte anatomica del corpo, ma in senso quasi fenomenologico e del tutto nuovo, a quanto pare, in filosofia, il soggetto del dolore e del piacere, ovvero l'individuo.»
La carne non è separata e contrapposta all'anima, ma è tutto ciò che la condiziona, la vera fonte della sofferenza e del piacere.
Diventa imperativo liberare la carne dalla sofferenza.
«Per Epicuro - prosegue Hadot - la scelta socratica e platonica dell'amore e del Bene è un'illusione: in realtà l'individuo si muove solo per cercare il proprio piacere e il proprio interesse. Tuttavia il ruolo della filosofia consisterà nel saper cercare in modo ragionevole il piacere, vale a dire nel cercare il solo vero piacere, il semplice piacere di esistere. Tutta l'infelicità, tutto il dolore degli uomini derivano, infatti, dalla loro ignoranza del vero piacere. » (idem)

Gli uomini, dunque, ignorano il vero piacere e sono incapaci di raggiungerlo. La loro perenne insoddisfazione dipende o dal fatto che sono costretti all'astinenza, perchè poveri, o perchè sopraffatti dall'abbondanza, perchè ricchi e spreconi. Non avendo misura, rovinano tutto, sia l'abbondanza che la penuria.
« Si può dire - conclude Hadot - in certo senso, che la sofferenza degli uomini derivi soprattutto dalle loro opinioni vuote, dunque dalle loro anime. La missione della filosofia, la missione di Epicuro, sarà dunque in primo luogo terapeutica: sarà necessario curare la malattia dell'anima e insegnare all'uomo il vero piacere.» (idem)
Secondo Epicuro, esistono piaceri "dolci e lusinghieri", che si propagano nella carne provocando un'eccitazione violenta ed effimera. Ebbene, questi sono da evitare! Perchè cercando queste delizie che non soddisfano mai, l'uomo va incontro al dolore. Questo tipo di apparenti piaceri, è definito come "mobile" o "in movimento".
Ciò che l'uomo deve cercare è al contrario il piacere stabile, "lo stato di equilibrio". Un corpo appagato, raccolto in sé stesso, che non prova fame, sete, freddo.
Scriveva in proposito:« Perchè è in vista di questo che compiamo tutte le nostre azioni, per non soffrire né avere turbamento. Quando noi avremo ciò ogni tempesta dell'anima si placherà, non avendo allora l'essere animato alcuna cosa da appetire come a lui mancante, né altro da cercare con cui rendere completo il bene dell'anima e del corpo. E' allora infatti che abbiamo bisogno del piacere, quando soffriamo perchè esso non c'è; quando non soffriamo non abbiamo bisogno del piacere.»

Abolito il bisogno, sembra dire Epicuro, siamo in grado di intendere qualcosa che non sempre è a portata di mano: il piacere di esistere.
Questo è lo straordinario ed era già presente in noi, solo che non ne eravamo consapevoli.
Hadot non manca di far notare come Rousseau riprenderà questo pensiero nelle Fantasticherie del passeggiatore solitario.
«Di che si gioisce in una situazione simile? Nulla a noi estraneo, nulla se non noi stessi e la nostra esistenza, finchè questo stato dura siamo autosufficienti come Dio.» (4)

Prenderla come una rivelazione, oppure cercare di verificarne il fondamento in noi stessi?
A chiunque sarà capitato di attraversare momenti simili. Ma in genere, solo pochi non saranno caduti nella tentazione di riempire il vuoto apparente con un pensiero, una volontà, o appunto un desiderio. Non si capisce veramente Epicuro se non si prova a rimanere in questo vuoto. Gli uomini, cioè tutti noi, sono tormentati da appetiti e solo una parte di essi sono naturali e rispondono ad un reale bisogno della carne. Diceva Epicuro che non sono naturali né necessari, ma prodotti da opinioni vuote, desideri senza limiti di ricchezza, gloria, immortalità e godurie effimere.
Bisogna dunque praticare un'ascesi, annullando quei desideri che non danno la pace dell'anima ma la rendono inquieta.


La fisica di Epicuro
La minaccia più grande alla felicità raggiunta è il timore della morte.
Per vincerla, non basta quanto già detto sopra. Occorre un po' di fisica. Sì, gli dei esistono, dice Epicuro - ma non hanno alcuna preoccupazione di come vanno le cose quaggiù. Non governano il mondo, non son loro che fan piovere e provocano terremoti. I fenomeni naturali hanno origini naturali.
Epicuro era rimasto attratto irresistibilmente dalla spiegazione fisica di Democrito. E la fece parzialmente sua, senza approfondirla o discuterla in modo significativo. Ma vi introdusse una variazione rivoluzionaria con un'affermazione che si opponeva al dogmatismo di Democrito e Leucippo circa la necessità e il fato. Nulla avveniva a caso, secondo la vecchia scuola atomista. Ma questa era una negazione della libertà umana, che invece Epicuro rivendicava.
Proviamo a spiegare.
Il mondo non è stato creato da una potenza divina - dice Epicuro - il mondo è eterno. Dal non-essere non può venire qualcosa. L'universo eterno è quindi costituito dai corpi pieni e dallo spazio, ovvero il vuoto, che sarebbe il non essere. I corpi che possiamo vedere e toccare sono il risultato di una composizione di atomi, cioè parti indivisibili ed eterne a loro volta, di numero enorme ma non infinito. Il loro movimento non corrisponde ad un disegno provvidenziale e finalistico.
Gli atomi cadono nel vuoto, e non appena deviano di un minimo dalla loro traiettoria si incontrano tra loro formando corpi composti.
Il movimento e le modificazioni della realtà, si spiegano con l'incessante movimento degli atomi. Ciò che nasce e ciò che muore e si decompone è il risultato di questo movimento invisibile.
Secondo Epicuro, esistono infiniti mondi (il che pare una contraddizione rispetto alla precedente affermazione sul numero degli atomi, che ho preso dall'Abbagnano) e sono soggetti a nascita e morte, esattamente come diranno anche gli stoici, probabilmente sotto la stessa influenza di dottrine orientali importate dall'India durante le campagne di Alessandro Magno.

Epicuro non spiega il motivo della deviazione degli atomi e del loro comporsi in forme che sono l'anima dei viventi (come dicevano gli aristotelici). E quantomeno noi moderni non siamo venuti in possesso di scritti e testimonianze che portino ad una spiegazione del tipo attrazione o repulsione. Si limita ad affermare che ogni atomo possiede una sorta di principio di spontaneità interna che lo rende libero di deviare.
In Epicuro, dunque, il caso prevale sulla necessità, e di questo caso non si può avere scienza se non, appunto, una scienza limitata alla sua constatazione.
Cosa avviene con la morte?
Che noi non siamo più noi stessi, perchè gli atomi che ci compongono si scindono e tornano liberi. Noi ci siamo più, e quindi la morte non ci riguarda.
Negazione che l'anima sopravviva al corpo e negazione che possa esistere un'anima che non è corpo, nemmeno della specie più sottile come diranno gli stoici. Anche l'anima è un corpo composto di atomi più piccoli e mobili, ed anch'essi con la morte si scompongono e tornano liberi.
E' qui che la forza terapeutica della filosofia epicurea vacilla clamorosamente, perchè la più grande consolazione dell'anima è appunto la speranza nella vita eterna.
Ed è, in fondo, questa stessa speranza che ci tiene aggrappati alla vita, che ci da la forza di continuare ad esistere.
Non sarà un caso che i seguaci di Epicuro spariranno più velocemente di quelli delle altre scuole filosofiche. La capacità di presa di una simile teoria fisica non era grande né nei confronti degli spiriti scettici ma curiosi, né nei confronti dei più disponibili ad un percorso di evoluzione spirituale.
Allora, come ora, del resto, la domanda di spiritualità trovò risposte più appaganti nello stoicismo e nelle nuove religioni. Il cristianesimo era per così dire già nell'aria, pur mancando ancora quasi trecento anni all'appuntamento con la storia.
Ottimo nell'affermare il valore della vita materiale ed il suo senso, anche se l'analisi manca di evidente profondità circa i sentimenti ed un ragionamento sul dolore che nasce dalla purezza del sentimento, dall'attaccamento alla famiglia, alla donna, ai figli, alla patria ed a tutto quello che non è strettamente piacere sensibile, Epicuro non concepì il valore della vita oltre la vita. Non ci arrivò e non possiamo certamente fargliene una colpa. Il suo era un razionalismo limitato, probabilmente un po' arido. La vera ragione è più ragionevole nel senso che accoglie e comprende anche le ragioni del sentimento e della speranza.

Contro idee certamente diffuse ai suoi tempi ed anche il comune sentire popolare, Epicuro assunse una precisa posizione contro il presunto intervento divino nel mondo. Prendendo spunto dall'esistenza del male, egli affermò: «La divinità o vuol togliere i mali e non può, o può e non vuole o non vuole né può o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente; e la divinità non può esserlo. Se può e non vuole, è invidiosa e impotente, quindi non è la divinità. Se non vuole e non può, è invidiosa e impotente, quindi non è la divinità. Se vuole e può (che è la sola cosa che le è conforme) donde viene l'esistenza dei mali e perchè non li toglie?»
Ragionamento che non fa una grinza rispetto a scenari generali, ma che tuttavia non pare efficace sul destino dei singoli, giacchè anche ai greci pagani era evidente che preghiera e diversi atteggiamenti potevano cambiare la vita delle persone e persino il loro destino.
E sarà su questo che gli stoici faranno leva, pur asserendo che il destino generale del mondo è necessariamente immutabile.

La canonica o il criterio della verità
Anche per quanto riguarda quella che potremmo chiamare logica epicurea, si possono notare alcune anticipazioni dello stoicismo. Infatti, anche per Epicuro la sensazione è sempre vera. La diversità risiede nel fatto che Epicuro fondava la sensazione sulla teoria atomistica, cioè sul flusso di atomi che si staccano dalla superficie delle cose. Il flusso produce immagini simili alle cose che le hanno prodotte e noi percepiamo le immagini. Ma, a questo punto, Epicuro introduce un elemento di novità asserendo che dalle sensazioni derivano rappresentazioni fantastiche, ovvero combinazioni di immagini diverse, non sempre realistiche (ad esempio l'accostamento di uomo e cavallo che produce il centauro), emozioni (cioè il senso del piacere e del dolore) ed anche ricordi conservati nella memoria.
Questo mix di sensazioni semplici, rappresentazioni fantastiche, emozioni e ricordi forma l'insieme di concetti generali o idee, che per Epicuro hanno soprattutto la funzione di fornire anticipazioni sul futuro.

Per Epicuro la sensazione è dunque il criterio fondamentale della verità, e sembrerebbe così evidente che la partita con l'eleatismo veniva chiusa in modo del tutto materialistico e realistico. Anche i concetti, derivando dalle sensazioni e dalle emozioni, non possono portare ad errore. Dove piuttosto, secondo Epicuro, ci si può fatalmente sbagliare è sulle opinioni. Esse saranno vere solo se confermate dalla testimonianza dei sensi, il che porta ad un empirismo ed anche ad un primo abbozzo della teoria della verifica. Questo frutto era dolce ieri, è dolce oggi, lo sarà anche domani? Vedremo....Però, la mia esperienza mi porta ad anticipare e fare una previsione ragionevole... lo sarà anche domani.

Ovviamente, Epicuro ammise che col ragionamento si possono conoscere anche cose nascoste od inarrivabili alla sensazione stessa, ma saranno i suoi discepoli a sviluppare una teoria del ragionamento induttivo. Nello scritto di Filodemo Sui segni, scopriremo infatti che gli epicurei ammettevano l'inferenza per analogia, muovendo dall'esperienza e quindi dalla sensazione. Se tutti gli uomini che abbiamo conosciuto sono mortali, che bisogno c'è di un approfondimento ulteriore, come richiederanno gli stoici, ovvero la necessità di stabilire che gli uomini sono mortali in quanto uomini?

Sarebbe tutto ok, se, una volta compresa l'importanza di questo realismo fisico, non distante da un senso comune piuttosto diffuso anche negli ambienti più superstiziosi, qualcuno non si fosse però domandato su quali basi si dovesse fondare l'atomismo, cioè la teoria fisica fondamentale degli epicurei.
Lo sconcerto che può prendere è certamente giustificato, perchè l'atomismo non può ritenersi frutto di una sensazione, ma di un ragionamento sull'essere e il non essere, il pieno ed il vuoto, che non ha un immediato riscontro nella realtà, e che non poteva nemmeno essere verificato ai tempi di Epicuro. Qualcuno ha mai provato a prendere degli atomi con le mani e metterli assieme per vedere se si riesce a fare, non dico un uomo, od un cane, ma solo una ciotola o una pietra?
Obiezioni di questo tipo non dovevano essere infrequenti, anche se la storiografia filosofica non le riporta.
Tra la fisica epicurea e la logica epicurea stessa vi era quindi una grossa contraddizione, a meno che non venisse ammesso che la stessa teoria fisica fosse il risultato di una intuizione intellettuale e non di una somma di esperienze empiriche.

L'etica
Praticamente abbiamo già anticipato molto dell'etica epicurea nell'introduzione. Molti sostengono che essa derivi direttamente dalla scuola cirenaica, ed in particolare da Aristippo, allievo di Socrate. Cerchiamo il piacere ed evitiamo il dolore, questa è la lampada che illumina le nostre scelte.
Ma il vero piacere è quello stabile, ed esso è prodotto non già da sensazioni ed emozioni piacevoli, ma dal tenere lontana la sofferenza. Il vero piacere sta dunque nell'atarassia, ovvero l'imperturbabilità.
Dunque vi fu in realtà una punta polemica con i cirenaici, i quali sostennero piuttosto una dottrina del "cogli l'attimo" perchè ciò che conta è il presente.
Diversamente, Epicuro insegnò a distinguere tra bisogni naturali e superfluo. Anche tra i bisogni naturali egli distinse tra quelli realmente necessari e quelli no.
Solo alcuni bisogni naturali e necessari vanno soddisfatti per avere la felicità. Altri vanno soddisfatti per la salute del corpo.
I desideri non naturali vanno rimossi.
«Quando dunque diciamo che il piacere è il bene completo e perfetto, non ci riferiamo affatto ai piaceri dei dissoluti, come credono alcuni che non conoscono o non condividono o interpretano male la nostra dottrina; il piacere per noi è invece non avere dolore nel corpo né turbamento nell'anima.
Infatti non danno una vita felice né i banchetti né le feste continue, né il godersi fanciulli e donne, né il godere di una lauta mensa. La vita felice è invece il frutto del sobrio calcolo che indica le cause di ogni atto di scelta o di rifiuto, e che allontana quelle false opinioni dalle quali nascono grandissimi turbamenti dell'animo.
La prudenza è il massimo bene ed il principio di tutte queste cose. Per questo motivo la prudenza è anche più apprezzabile della filosofia stessa, e da essa vengono tutte le altre virtù. Essa insegna che non ci può essere vita felice se non è anche saggia, bella e giusta; e non v'è vita saggia, bella e giusta che non sia anche felice. Le virtù sono infatti connaturate ad una vita felice, e questa è inseparabile dalle virtù.
E adesso dimmi: pensi davvero che ci sia qualcuno migliore dell'uomo che ha opinioni corrette sugli dèi, che è pienamente padrone di sé riguardo alla morte, che sa sino in fondo che cosa sia il bene per l'uomo secondo la sua natura e sa con chiarezza che i beni che ci sono necessari sono pochi e possiamo ottenerli con facilità, e che i mali non sono senza limiti, ma brevi nel tempo oppure poco intensi? » (dalla lettera a Meneceo)
Tra i consigli della prudenza, Epicuro metteva anche quello di astenersi dalla vita politica, forse più nel senso di accantonare le ambizioni che nel senso di coltivare l'interesse per i problemi. Il precetto di "vivere nascosto" per essere felice e tranquillo fece comunque molta strada ed è parte integrante di una saggezza popolare mai tramontata.

La scuola epicurea e la sua eredità
La scuola aperta da Epicuro aveva sede in un giardino. Epicuro era molto venerato, quasi come un dio, e Seneca riporta un precetto considerato basilare nella scuola: "comportati sempre come se Epicuro ti vedesse."
Molta importanza avevano la vita in comune, l'amicizia, il dono di sé in squisita compagnia. Una delle massime epicuree più famose fu ripresa nientemeno che da San Paolo (non viene il dubbio che l'apostolo si sia confuso?) il quale la mise pari pari in bocca a Cristo. Diceva Epicuro:" E' non solo più bello ma anche più piacevole fare il bene che riceverlo."
Lo stesso Seneca colse un dato importante, ovvero che l'epicureismo godette di un certo successo solo finchè fu vivo il maestro. La forza d'attrazione era dovuta più alla personalità di Epicuro che all'oggettività della teoria. Tant'è vero che già nel I° secolo il Giardino venne chiuso.
Comunque sia, la scuola di Epicuro, sotto l'impulso del suo fondatore conobbe un certo successo.
Al giardino erano ammesse anche le donne, ed alcune divennero anche famose come Temista e l'etera Leonzia ( o Leontina) che pare abbia scritto un testo polemico contro Teofrasto, il successore di Aristotele alla guida del Liceo.
Filodemo, di cui abbiamo parlato, fu uno dei discepoli più produttivi, attivo a Roma ai tempi di Cicerone ed autore di testi quali RetoricaSui segniIl buon re secondo Omero, Sulla musicaSulla pietà.
Filodemo polemizzò con gli stoici ed anche con la scuola aristotelica. Lo scritto Retorica contiene una critica della retorica aristotelica, cui oppose il metodo induttivo ed analogico.
Ma fu il poeta Lucrezio l'epicureo più famoso del mondo antico e forse il vero tramite della trasmissione ai posteri delle dottrine del maestro. La sua opera De rerum natura, peraltro non ultimata, è forse uno dei classici più letti e considerati nella storia dell'umanità, e si mostrò particolarmente fedele alla dottrina originaria.
Lucrezio, descritto come temperamento passionale, si suicidò (più da stoico che da epicureo) a soli 44 anni.

Nel II° secolo d.C. apparve probabilmente l'ultimo degli epicurei antichi, Diogene di Enoanda in Asia Minore.
Comunque, bisognerà arrivare in epoca moderna, a Gassendi, perchè la filosofia epicurea ritorni in qualche modo agli onori della cronaca e della storia. Nel mondo antico, specie per l'avvento dello stoicismo e per il successivo imporsi di dottrine neoplatoniche, nuove religioni ed infine il cristianesimo, non ebbe molta fortuna e molti seguaci.


note:
1) Epicuro - Lettera a Meneceo
2) Pierre Hadot - Che cos'è la filosofia antica? - Einaudi
3) Epicuro - Lettere, massime sentenze -
4) J.J. Rousseau - Le fantasticherie del passeggiatore solitario - Quinta passeggiata - in Scritti Autobiografici - Einaudi

lunedì 1 novembre 2010

Sos neofaeddantes o sa fragilidade de sa limba


pubblicata da Xavier Frias



Unu de sos fenòmenos prus representativos de sos protzessos de recuperatzione e normalizatzione de sas limbas minores est s'aparitzione de sos neofaeddantes. Custu fenòmenu est interessante meda de analizare, ca si depent dare totu una sèrie de cunditziones pro chi si produat.

Ma, ite est unu neofaeddante? Est una pessona chi aprendet una limba de minoria pro motivos divessos (polìticos, culturales o pure ambos) chi est istada sa limba de comunicatzione normale in famìlia sua in generatziones anteriores. Sos neofaeddantes sunt una legione in sas limbas regionales ispanniolas, però sa situatzione prus interessante est de seguru sa de sos bascos. Sos neofaeddantes bascos sunt medas, non sunt faeddantes traditzionales de sa limba (cuddos faeddantes traditzionales sunt connotos cun su nùmene de paleofaeddantes), ca non l'ant rètzidu in domo, ma l'ant imparada, su cale est una cosa divessa meda. S'èsssere un neofaeddante non signìficat chi si faeddet male sa limba. In gènere sos neofaeddantes chircant a chistionare sa limba noa cun cura meda.

E in s'atòbiu de sos bascos, custu est importante meda ca su nùmaru de faeddantes de custa limba est crèschidu cunsiderabilmente gràtzias a issos. Ma, ite faeddant praticamente totu custos neofaeddantes bascos (e puru sos catalanos e galitzianos?). Faeddant sa limba istàndard. Iscrient sa limba istàndard. Faghent un'impreu normale de sa limba istàndard, chircant a usare sa limba istàndard comente si diat pòdere fàghere cun sa limba istatale.

Cudda limba basca aunida istàndard, cramada euskara batua no est sa limba de peruna bidda, ma leat unu modellu tzentrale inter sos dialetos otzidentales (bascu biscainu) e sos orientales-setentrionales (bascu de Iparralde e Navarra), pro custu subra de sa base de su bascu de Ghipùscoa ant creadu su bascu istàndard, ma no est pròpiu bascu ghipuscoanu.

Custu bascu istàndard depiat tènnere, in prus de sa forma iscrita, una pronùntzia de referimentu. E custu est importante meda ca, chena una pronùntzia de referimentu sa limba istàndard non si podet usare che limba faeddada, chena una pronuùtzia de referimentu non si podet ofrire sa limba istàndard a sos neofaeddantes. In carchi manera, bisòngiat èssere pretzisu meda subra de sa chistione de sa pronùntzia de referimentu, subra de unu cuntzetu chi podet bènnere pollèmicu in unu modu innetzessàriu. Sa pronùntzia de referimentu serbit, pro esempru, cando b'at bisòngiu de una pronùntzia de usare cando sa limba no est sa pròpia; o pure, cando bi cheret usare una pronùntzia de sa limba chi non siat dialetale. Forsis sa pronùntzia de referimentu podet bènnere sa pronùntzia istàndard, o nono, ma s'istandardizatzione de totu sas limbas de minoria non si faghet in sa forma iscrita ebbia (custu est su passu de unu), ma in sa pronùntzia puru. E custa est una chistione bene connota dae sos normativizadores de sas limbas de minoria ibèricas.

Duncas, creo chi sa chirca de una pronùntzia de referimentu pro su sardu istàndard siat assolutamente netzessària. Est berus chi in elementos medas, sas optziones podent èssere prus de una (p.es. pronuntziare cando /'kando/ o /'kandu/; o forte che /'forte/ o /'forti/), ma isco chi in àteros casos sa pronùntzia de referimentu s'at a adatare a sa forma iscrita, custu est normale in totu sas limbas.

Chi su sardu at a crèschere gràtzias a sos neofaeddantes, e isperamus chi eja, depet èssere prontu pro serbire che limba de comunicatzione normale. Sa presèntzia de sos neofaeddantes est unu sinnu bonu de recuperatzione, de salude de sa limba. Ma sa limba depet èssere preparada, e non solo pro sos neofaeddantes, ma pro totu sos faeddantes.

Tando, chie galu creet chi non b'at bisòngiu de unu sardu istàndard, tenet resone: sos sardos tenent s'italianu pro si fàghere cumprèndere inter sese. Però, est cuddu su futuru chi mèritat sa limba millenària de sa Sardigna?

martedì 21 settembre 2010

L’eco-quartiere e il “paese delle pale”: due esempi da imitare

Ancor oggi nelle città persiste l’ignoranza ecologica. Per fortuna esistono esempi positivi non unici al mondo, come in Abruzzo e in Germania

L’eco-quartiere e il “paese delle pale”: due esempi da imitare

Come ben sappiamo l’energia rinnovabile, il riciclo, il rispetto per l’ambiente sono il nostro futuro. Ma ancora oggi, purtroppo, nelle città – grandi e piccole – persiste la maleducazione dell’inquinamento, dello spreco e dell’ignoranza ecologica.

Per fermare il riscaldamento globale e la conseguente nostra autodistruzione bisogna attuare un cambiamento.

Quando si parla di cambiare si ha sempre un po’ paura. Ma ciò non significa modificare radicalmente le abitudini. Vuol dire solamente continuare a vivere normalmente, utilizzando però mezzi differenti, che rispettano il pianeta.

Esistono due iniziative concrete, che tutte le città del globo dovrebbero prendere a esempio.

In Italia, precisamente in Abruzzo, possiamo trovare un piccolo paese con una particolarità: è totalmente eco-sostenibile.
Castiglione Messer Marino
(in provincia di Chieti) è stato rinominato il “paese delle pale”, proprio per la particolarità delle sue sessantasette pale eoliche, che riforniscono l’intera zona di energia pulita. Non solo eolico, ma anche attenzione per la protezione del territorio e delle aree verdi.La stragrande maggioranza dei cittadini di Castiglione è convinta della scelta dell’eolico, soprattutto dopo aver constatato il reale risparmio energetico che ne hanno tratto. Risparmio e buona salute… per noi e per la nostra terra.

Come già detto, Castiglione, fortunatamente, non è l’unico esempio cittadino di rispetto dell’ambiente. A Vauban, eco-quartiere di Friburgo (Germania), i 5.000 abitanti vivono in simbiosi con la terra che li circonda.
Loro stessi sono “portatori sani “di iniziative volte a promuovere la salute del pianeta: uso esclusivo di energia solare, grazie ai pannelli impiantati sui tetti di tutte le case; in circolazione vi sono solamente 150 auto ogni mille persone (la media italiana è di 592); chi aderisce al car sharing, ovvero condivide il proprio mezzo con altre persone, usufruisce dell’abbonamento gratis al tram.

Esempi che dovrebbero far riflettere tutti noi e soprattutto le nostre amministrazioni comunali.

Si può e si deve cambiare.

Per poter ancora dire “futuro”.

martedì 3 agosto 2010

Stiglitz: "Fanno soldi sul disastro che loro hanno creato"

Il Nobel per l'Economia: paradosso assurdo,
colpa degli speculatori che prendono di mira i governi più deboli
STEFANO LEPRI
lastampa.it
ROMA
«E' un paradosso assurdo, da voi in Europa - si infervora Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia 2001 - una ironia della storia. Non lo vede? I governi hanno contratto molti debiti per salvare il sistema finanziario, le banche centrali tengono i tassi bassi per aiutarlo a riprendersi oltre che per favorire la ripresa. E la grande finanza che cosa fa? Usa i bassi tassi di interesse per speculare contro i governi indebitati. Riescono a far denaro sul disastro che loro stessi hanno creato».

Che può succedere ora?
«Aspetti. Non è finita qui. I governi varano misure di austerità per ridurre l’indebitamento. I mercati decidono che non sono sufficienti e speculano al ribasso sui loro titoli. Così i governi sono costretti a misure di austerità aggiuntive. La gente comune perde ancora di più, la grande finanza guadagna ancora di più. La morale della favola è: colpevoli premiati, innocenti puniti».

Come si può rimediare?
«Tre punti. Primo: niente denaro alla speculazione. Negli Stati Uniti come in Europa, bisogna fare nuove regole per le banche. Devono finanziare le imprese produttive, non gli hedge funds. Bisogna impedirgli di speculare».

Una parola. Se è il governo a dirigere il credito, il rischio è di distribuirlo ancora peggio.
«Non credo. Secondo me si può e si deve intervenire. Punto secondo: bisogna imporre tasse molto alte sui guadagni di capitale. Oggi è più vantaggioso speculare che lavorare per vivere. Deve tornare ad essere il contrario».

E poi?
«Punto terzo: in Europa dovete appoggiare i governi in difficoltà».

Si rischia di premiare i politici che governano male.
«No. La prova la dà la Spagna. Oggi è in difficoltà senza aver fatto errori. Il governo aveva un bilancio in attivo fino all’altr’anno; la Banca centrale ha sorvegliato le banche molto bene, tanto che viene citata ad esempio nel mondo. Che colpa hanno? Certo, anche loro hanno visto crescere la bolla, nel mercato immobiliare, e non l’hanno fermata. Ma è l’errore che hanno fatto tutti. Era nello spirito dei tempi. Lo ispirava l’ideologia neo-liberista che ha dominato per molti anni».

In Grecia però hanno sbagliato. Hanno anche truccato i conti.
«Non l’attuale governo, il precedente. Sono stati colpiti dalla crisi della navigazione commerciale, settore importante per loro, e dal calo del turismo. Insomma, perché dobbiamo costringere la gente a fare ancora più sacrifici, se non ha colpa?».

Il debito c’è. Prima o poi gli Stati dovranno ripagarlo.
«Ma perché mai dobbiamo dare retta ai mercati? I mercati non si comportano in maniera razionale, lo abbiamo visto nel modo in cui si è prodotta la crisi. Allora perché mai dovrebbero avere ragione, nel chiedere ancora più sacrifici ai cittadini di quei paesi? In più, anche se la avessero, si comportano in maniera troppo erratica. E per finire, qui è in corso un attacco speculativo: non è che se uno fa bene non lo colpiscono, è che se ti possono far fuori ti fanno fuori».

Come possiamo fare, in Europa?
«Dovete costruire dei meccanismi di solidarietà fra Stati. L’Unione deva avere più risorse a disposizione. Si spendono un sacco di soldi per la politica agricola comune, che è uno spreco, mentre...»

Si potrebbero emettere dei titoli europei, gli Eurobonds.
«Certo. E poi occorre tassare le attività nocive. Soprattutto due: la finanza e le emissioni di anidride carbonica. Anche negli Stati Uniti».

Obama riuscirà a imporsi alle banche?
«Sarà una lunga battaglia. Ma la rabbia della gente è forte, e il presidente lo sa. I banchieri hanno contro tutto il resto della popolazione».

Il Congresso è riluttante.
«Spero che non si debba arrivare ad un’altra crisi, prima di riuscire a mettere la finanza sotto controllo. Sarebbe davvero triste. Pensi a quanto danno hanno causato. Lo sa che secondo le rpevisioni del Cbo, l’Ufficio bilancio del Congresso, la disoccupazione comincerà a diminuire sono a metà del decennio? Queste sono cose che restano a lungo nella memoria della gente».

domenica 21 febbraio 2010

A rischio la principale fonte di cibo dei poveri: "Chiediamo all'Europa di non approvare il riso OGM della Bayer"



AUTORE: CBG Coordination gegen BAYER-Gefahren/Coalition against BAYER-Dangers


La Coalizione contro i pericoli derivanti dalla Bayer sollecita le Autorità Europee a rifiutare l'approvazione all'importazione del riso Liberty Link (LL62), prodotto da Bayer CropScience. Il riso LL62 è stato modificato con un gene che permette alle piante di resistere al glufosinato, un erbicida prodotto dalla Bayer con i marchi Basta e Liberty.

L'approvazione da parte dell'Europa all'importazione del riso geneticamente modificato, consentirebbe alla Bayer di promuoverne la coltivazione nei paesi in via di sviluppo. Questo potrebbe portare alla contaminazione dei tipi di riso coltivati nelle zone di origine, a una diminuzione della diversità e potrebbe addirittura mettere a rischio la principale fonte di cibo dei paesi poveri. L'impatto negativo ricadrebbe più pesantemente proprio sul settore più vulnerabile, quello dei poveri nelle aree rurali.


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Con il riso LL62, le dosi d'uso del glufosinato verrebbero aumentate aumentando così anche le possibilità che residui dell'erbicida rimangano nel riso. Secondo una valutazione dell'Autorità Europea per la sicurezza alimentare (EFSA), il glufosinato comporta un alto rischio per i mammiferi. La sostanza viene classificata come reprotossica. Il nuovo regolamento della UE mette al bando tutti i pesticidi CRM (cancerogeni, mutageni e reprotossici) delle categorie I e II. Il glufosinato è classificato tra i reprotossici di categoria II.

La Bayer ha fatto richiesta di poter importare il riso LL62, già nel 2003. La richiesta è stata respinta più volte dal Consiglio dei Ministri del Parlamento Europeo, ma non è ancora stata ritirata. La Bayer sta cercando di ottenere l'approvazione anche in Brasile, Sud Africa, India e Filippine. Fino ad oggi le approvazioni all'importazione in Europa sono state concesse principalmente per mangimi geneticamente modificati. Il riso Liberty Link sarebbe il primo prodotto OGM destinato al consumo umano diretto.

Philipp Mimkes della Coalizione contro i pericoli derivanti dalla Bayer (CBG), che da 30 anni sta monitorando la Bayer: “Chiediamo l'applicazione rigorosa del principio di precauzione nei confronti del riso geneticamente modificato, invitando a non approvare l'importazione nei paesi dell'Unione Europea del riso LL62 in quanto non ci sono prove sufficienti che tale riso non causi danni alla salute umana o all'ambiente”Vedere anche:




">Originale da: Staple food endangered: EU urged not to approve Bayer´s GM Rice

>Carlos Latuff

Articolo originale pubblicato il 1-2-2010

L’autore

La Coalizione contro i pericoli derivanti dalla Bayer è un partner di Tlaxcala, la rete internazionale di traduttori per la diversità linguística. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

URL di questo articolo su Tlaxcala:
http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=9984&lg=it

mercoledì 14 ottobre 2009

NAVE DEI VELENI La Marina militare sapeva da tre anni. La Capitaneria di porto aveva ordinato il blocco della pesca Rifiuti di stato sotto il mare

Andrea Palladino
il manifesto.it
Rifiuti di stato sotto il mare
Il relitto di Cetraro, lentamente, sta ritornando nel buio dei fondali. I 500 metri di profondità che lo hanno nascosto per diciassette anni si allungano, diventano inaccessibili. Il rischio del silenzio è dietro l'angolo. Eppure è lì. Eppure nessuno ha smentito la storia delle navi dei veleni. Anzi, man mano che gli archivi risalgono in superficie la lista delle conferme si allunga, si rinsalda.
La prima notizia è pessima: i rifiuti pericolosi al largo di Cetraro ci sono. Due aree vicine alla zona del ritrovamento del relitto dello scorso 12 settembre - una un po' più a nord, l'altra più a est, vicina alla costa - sono contaminate da metalli pesanti: arsenico, cobalto, alluminio e cromo. Tutte sostanze che non possono provenire dalla costa, dove non esistono industrie. Tutte sostanze, quindi, che qualcuno ha gettato in mare.
Non si tratta di studi del governo arrivati in questo mese di attesa. L'individuazione dei residui è del 2006 ed è riportata in una ordinanza della Capitaneria di Porto di Cetraro, la 03/2007. Il documento indica due quadrilateri, vietando la pesca a strascico nelle zone contaminate. La Marina militare, dunque, sapeva dell'esistenza di rifiuti tossici al largo di Cetraro da almeno tre anni. Peccato che quando il procuratore di Paola chiese aiuto per individuare il relitto la risposta fu evasiva: non abbiamo navi da inviare.
E il consulente della Mitrokhin?
C'è poi una seconda notizia, passata inosservata, riportata solo dai quotidiani della Calabria. Sulle navi a perdere è intervenuta una fonte autorevole, l'ammiraglio Bruno Branciforte, da poco a capo dell'Aise - i servizi segreti militari - convocato dal Copasir, il comitato parlamentare per il controllo dei servizi segreti. Secondo quanto riportato dal quotidiano Calabria ora, l'ammiraglio ha confermato l'esistenza di almeno 55 navi utilizzate - in vario modo - per il trasporto illegale di rifiuti. La questione doveva poi essere approfondita in un'altra audizione dedicata, ma di rinvio in rinvio non se ne è saputo più nulla. Eppure le domande da fare a Branciforte non mancano: perché fin dal 1995 si parla di interventi più o meno velati dei servizi segreti nella questione senza, però, avere mai una risposta chiara? E che ruolo hanno avuto personaggi come Scaramella - il mitico consulente della commissione Mitrokhin - o come Aldo Anghessa, apparsi varie volte nelle inchieste degli anni Novanta sulle navi?
Tutto tace
Il silenzio, intanto, è sceso anche sull'inchiesta giudiziaria. A metà settembre il procuratore di Paola Bruno Giordano ha dovuto passare tutte le carte alla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Il pentito Francesco Fonti, con le sue dichiarazioni alla stampa, ha accusato direttamente la 'ndrangheta di tre affondamenti, tra i quali quello del relitto al largo di Cetraro. Fonti è andato, però, oltre, individuando i possibili mandanti ai più alti livelli in diverse interviste. Ed è quindi sconcertante che ancora non abbia deposto davanti ai magistrati, mentre il programma di protezione - che era stato sospeso negli anni scorsi - non è stato ancora riattivato. E come spesso accade in Calabria, i fatti vengono avvolti da una sorta di opacità, che impedisce di capire cosa stia accadendo. Tre magistrati di Catanzaro - Lombardo, Borrelli e Pignatone - lo hanno in realtà convocato nei giorni scorsi a Roma, presso la sede della Direzione nazionale antimafia. Quel giorno, però, l'avvocato di Fonti, Claudia Conidi, era impegnata in un altro processo. «Avevo avvisato i magistrati della Dda con un fax - spiega - ma hanno voluto fare lo stesso l'interrogatorio». Francesco Fonti, a quel punto, non ha voluto proseguire. «Si è sentito insicuro, senza un avvocato di fiducia - continua l'avvocato Conidi -, senza ancora un programma di protezione». E l'attesa deposizione è saltata. Il problema è che - secondo il legale del pentito - i magistrati di Catanzaro non avrebbero intenzione di risentirlo, almeno per il momento. «Il procuratore Borrelli - spiega il legale - mi ha detto che lo sentirà solo se ci sarà una necessità processuale». Per ora le parole pesanti di Fonti non verranno, dunque, messe su un verbale. Preoccupato, il pentito ha preso carta e penna e ha scritto ieri alla procura di Salerno, competente per la vigilanza sull'operato dei magistrati calabresi: «Vuole essere sentito - racconta l'avvocato - con tutte le garanzie, che finora non ha avuto».
C'era una volta l'entusiasmo
Lontanissimi sono quindi i giorni di metà settembre, quando l'entusiasmo del procuratore di Paola Bruno Giordano e dell'assessore regionale all'ambiente Silvio Greco annunciava la svolta nella lunga e complessa storia delle navi dei veleni. I veleni - e questo è certo - rimangono lì, nel mare di Cetraro e sulle colline vicino Amantea. Aspettano che qualcuno scriva i nomi che erano stampati sulle etichette dei fusti, gettati in mare nelle navi a perdere.

lunedì 11 maggio 2009

La filosofia politica di Karl Popper 2

La critica a Comte ed John Stuart Mill
di Renzo Grassano


Una tendenza non è una legge - scrive Popper.
"Una proposizione che affermi l'esistenza di una tendenza è esistenziale, e non universale".
Come già dimostrato, "una legge universale, non afferma l'esistenza di qualcosa... ma afferma l'impossibilità di qualcosa..."
L'importanza logica di tale distinzione ha conseguenze decisive.
Secondo Popper, infatti, potremmo fondare previsioni sociali di valore scientifico su leggi, ma non su tendenze.
«La distinzione famosa fin dai tempi di Comte e di Mill fra le leggi di coesistenza, che corrisponderebbero alla statica, e le leggi di successione corrispondenti alla dinamica, può - ne conveniamo - essere interpretata in un modo ragionevole; cioè, può considerarsi una distinzione fra leggi nella cui formulazione è partecipe il tempo (per esempio leggi che parlano della velocità), e leggi che non hanno nessun riferimento al concetto del tempo. Ma non è precisamente questo che avevano in mente Comte e i suoi seguaci. Dicendo leggi di successione, Comte pensava alle leggi che determinano la successione di una serie dinamica di fenomeni, nell'ordine in cui li osserviamo. Ora è importante rendersi conto che le leggi "dinamiche" di successione, come le pensava Comte, assolutamente non esistono... [...] Ciò che più si avvicina ad esse, e a cui probabilmente pensava, sono fenomeni periodici, come le stagioni, le fasi della luna, le eclissi o magari le oscillazioni del pendolo. Ma queste periodicità, che nella fisica potrebbero essere descritte come dinamiche (benché stazionarie), sarebbero, nel senso comtiano del termine, "statiche" piuttosto che "dinamiche"; in ogni caso ben difficilmente potrebbero essere definite "leggi" (in quanto dipendono dalle speciali condizioni che prevalgono nel sistema solare...) Io le chiamerò "quasi-leggi di successione".» (1)

Dice il filosofo austriaco: «... possiamo sì ipotizzare che ogni successione reale di fenomeni procede secondo leggi di natura, ma è importante che ci rendiamo conto che nessuna sequenza, diciamo, di tre o quattro fenomeni connessi casualmente procede secondo una sola legge di natura. Quando il vento scuote un albero e fa cadere per terra la mela di Newton, nessuno nega che questi eventi possono descriversi nei termini delle leggi causali. Ma non esiste una sola legge, come quella della gravità, né un solo gruppo ben definito di leggi, che possa descrivere la successione concreta degli eventi come una successione di eventi connessi causalmente: oltre alla gravità, dovremmo considerare le leggi che spiegano la pressione del vento, gli scatti del ramo; la tensione nel gambo della mela; i lividi prodotti nella mela dall'urto, i successivi processi chimici, ecc. L'idea che una qualsiasi serie o successione concreta di eventi ( a parte i movimenti del pendolo, o del sistema solare, o esempi simili,) possa essere descritta o spiegata da una sola legge, o da un gruppo ben definito di leggi, è semplicemente sbagliata. Non vi sono né leggi di successione, né leggi di evoluzione.
Eppure, secondo il concetto di Comte e di Mill, le loro leggi di successione determinerebbero una serie di eventi storici, nell'ordine in cui si fossero effettivamente presentati; lo possiamo dedurre dal modo in cui Mill parla di un metodo che "consiste nel tentare di scoprire, per mezzo dello studio e dell'analisi dei fatti generali della storia... la legge del progresso; la quale legge, una volta che fosse, dovrebbe... darci la la possibilità di predire gli eventi futuri, allo stesso modo che, in algebra, dopo appena pochi termini di una serie infinita, possiamo scorgere il principio di regolarità della loro formazione, e predire il resto della serie fino a qualunque numero di termini. Verso questo metodo mantiene un atteggiamento critico: ma la sua critica (vedi il principio del paragrafo 28) ammette ampiamente la possibilità di trovare leggi di successione analoghe a quelle delle serie matematiche, sebbene esprima il dubbio che "l'ordine di successione..., che la storia ci presenta" non sia così "rigidamente uniforme" da essere comparato con una serie matematica.» (1)

Dopo aver riconosciuto, comunque, a Comte ed a Mill qualche merito in campo epistemologico, in particolare per la critica all'essenzialismo(2), Popper chiude convinto di dare una lezione quasi definitiva, spiegando che rimane fondamentale il metodo.
Quando si raccolgono dati (prove, fatti, serie di fatti, in questo caso eventi storici, ndr) per arrivare a qualche conclusione circa il loro significato, non basta cominciare con delle osservazioni, come pensano alcuni studiosi. «... è necessario che sorga un nostro interesse rispetto ai dati di una certa storia: prima di tutto si presenta sempre il problema. Il problema a sua volta può essere suggerito da necessità pratiche, o da credenze scientifiche o prescientifiche che per una ragione qualsiasi sembrino aver bisogno di una revisione.» (1)

In una lunga e rigorosa disamina del pensiero di Mill circa la spiegazione, intendendo la spiegazione causale, Popper perviene ad una prima conclusione: tra il suo pensiero e quello di Mill "non c'è molta differenza per quel che riguarda la riduzione di leggi ad altre leggi più generali, cioè per la spiegazione causale di regolarità".
Però, Mill fa un "uso non chiaro" del termine causa. Se ne serve sia per denotare leggi universali, sia per evidenziare eventi singolari.
Questo crea confusione e porta Mill ad un errore grossolano: ad ignorare, cioè, che il persistere di tendenze è strettamente connesso alle condizioni iniziali che hanno reso possibile la tendenza stessa. «Mill e i suoi compagni storicisti non hanno notato la dipendenza delle tendenze dalle condizioni iniziali. Adoperano leggi come se fossero leggi assolute. La confusione che fanno tra leggi e tendenze fa sì che essi credano in tendenze non condizionali ( e quindi generali); oppure potremmo dire, in tendenze assolute; per esempio, in una tendenza storica generale verso il progresso - "una tendenza verso uno stato migliore e più felice"...
[...] Ecco, possiamo dire, l'errore centrale dello storicismo. Le sue "leggi dello sviluppo" si rivelano essere tendenze assolute, tendenze come leggi, che non dipendono dalle condizioni iniziali, e che irresistibilmente ci trascinano in una certa direzione nel futuro.» (1)

Proseguendo, Popper dedica ampio spazio alla comparazione tra i metodi delle scienze fisiche e quelli delle scienze sociali, finendo col parlare della propria concezione epistemologica. In particolare, insiste sull'importanza delle prove sperimentali. Ma c'è un passaggio saliente che merita la citazione in quanto evidenzia il rigore impiegato nella ricostruzione logica della nascita di una teoria: «Importa... rendersi conto che nella scienza dobbiamo sempre occuparci di spiegazioni, previsioni, esperimenti, e che il metodo di cui ci serviamo per provare le ipotesi è nella sua parte principale invariabile [...] : dalle ipotesi sotto esame - per esempio una legge universale - unitamente ad alcune altre proposizioni all'uopo accettate senza discussione - per esempio delle condizioni iniziali - deduciamo una prognosi. Questa prognosi poi la confrontiamo, tutte le volte che sia possibile, con il risultato di osservazioni sperimentali o di altra natura. Se la prognosi e le osservazioni concordano, l'ipotesi si considera convalidata, seppure non confermata del tutto; se sono palesemente discordi, l'ipotesi si considera confutata, e la sua falsità provata.
Secondo questa analisi non vi è molta differenza tra la spiegazione, la previsione e la sperimentazione. Si tratta di una differenza non di struttura logica, ma di enfasi; dipende da che cosa consideriamo problematico. Se consideriamo non problematica la prognosi e invece problematiche le condizioni iniziali o alcune delle leggi universali ( o tutte e due) da cui poter dedurre una data "prognosi" allora diciamo che si tratta di una spiegazione ( e la prognosi diventa allora l'explicandum). Se consideriamo non problematiche le leggi e le condizioni iniziali e ce ne serviamo soltanto per dedurre la prognosi al fine di ottenere delle nuove conoscenze, diciamo che si tratta di una previsione. (E questo il caso in cui applichiamo i nostri risultati scientifici.) E se consideriamo problematica una delle premesse, cioè, o una legge universale o una condizione iniziale, e se la prognosi può essere determinata dall'esperienza, allora diciamo di aver sottoposto la premessa problematica a prove sperimentali. » (1)

E qui veniamo al cuore della concezione popperiana, molto simile a quella che abbiamo già visto nei files su von Hajek.
Dopo aver affermato che il come è stata trovata una teoria è un fatto di natura del tutto privata (mah?!), Popper afferma che è, piuttosto, importante la domanda "come hai provato la tua teoria?". E' la sola domanda che importa dal punto di vista scientifico. (altro mah?!)
E spiega: «Ora, io sono persuaso che tutto ciò vale non solo per le scienze naturali, ma anche per quelle sociali. E nelle scienze sociali è ancora più evidente che in quelle naturali che non possiamo vedere ed osservare i nostri oggetti prima di aver pensato ad essi. Infatti la maggior parte degli oggetti della scienza sociale, se non tutti, sono astratti; sono costruzioni teoretiche. (Ad alcuni sembrerà strano, ma perfino "la guerra" o "l'esercito" sono concetti astratti. Uomini uccisi, uomini in divisa, ecc. - ecco ciò che è concreto.)
Questi oggetti, queste costruzioni teoretiche di cui ci serviamo per interpretare le nostre esperienze, risultano dalla costruzione di certi modelli (specialmente di istituzioni), per spiegare certe esperienze - un metodo teorico ben noto nelle scienze naturali (nelle quali costruiamo modelli di atomi, molecole, solidi, liquidi, ecc.), e che fa anche parte del metodo di spiegazione per mezzo della riduzione o della deduzione di ipotesi. E' vero che spessissimo non ci rendiamo conto che stiamo adoperando delle teorie, e che ci illudiamo che i nostri modelli teorici siano delle "cose", ma questo è un genere di errore comunissimo. Questo uso di modelli spiega, ed allo stesso tempo distrugge, le tesi dell'essenzialismo metodologico. Le spiega, perché il modello è di carattere astratto o teoretico, e noi facilmente crediamo di vederlo in mezzo al mutare degli eventi osservabili o dietro ad essi, come una specie di spettro permanente o di essenze. E le distrugge perché il compito di una teoria sociale è di costruire ed analizzare i nostri modelli sociologici attentamente in termini descrittivi nominalisti, cioè in termini di individui, dei loro atteggiamenti, delle loro speranze, dei loro rapporti, ecc. - postulato che possiamo chiamare "individualismo metodologico. (che abbiamo già visto in von Hajek, ndr) » (1)
Non a caso, Popper cita von Hajek riprendendo paragrafi piuttosto lunghi, per arrivare comunque ad affermare un'unità di metodo tra scienze naturali e scienze sociali, pur ammettendo alcune differenze.
Nel prossimo capitolo vedremo meglio questi aspetti della teoria popperiana concernenti il metodo.
note:
(1) Karl Raimund Popper - Miseria dello storicismo - Feltrinelli 1975
(2) essenzialismo è dottrina di derivazione aristotelica e consiste nell'approcciare ogni fenomeno ed ogni esistente con la domanda "che cos'è?", provocando così una risposta di tipo descrittivo con la pretesa di arrivare ad una definizione che esprima l'essenza di qualcosa. Ad esempio, per Aristotele l'uomo è animale bipede, razionale, politico (nel senso di socievole e cooperativo, ma anche di schiavista... ehm) Popper si proclama "nominalista", cioè fiero oppositore dell'essenzialismo. Per un nominalista i fenomeni si possono solo descrivere, ma non si può dire che cosa sia, ad esempio, un uomo, o cosa sia la "luce". Il nominalismo è di fatto una conseguenza della nascita della scienza moderna, a partire da Galileo e da Newton.