lunedì 15 luglio 2013

Kant filosofo della scienza: antiatomista, perchè antidogmatico

Kant filosofo della scienza: antiatomista, perchè antidogmatico

di Renzo Grassano

moses/




Contrariamente a molti studiosi propensi a rivalutare il pensiero fisico di Democrito come antidogmatico rispetto a quello dogmatico di Aristotele (ed anche di Platone), Daniele Lo Giudice ha preferito configurare l'atomismo come una derivazione dell'eleatismo e quindi come una prosecuzione di quel dogmatismo con altri mezzi. Condivido la scelta, anche se con qualche riserva, ma in questa sede mi preme soprattutto evidenziare come Daniele sia corroborato da buona compagnia. Anche Kant fu molto critico nei confronti dell'atomismo, tacciandolo di dogmatismo metafisico. Non già per opporgli la fisica dialettica d'Aristotele, ma a tutto vantaggio di quella moderna, avviata da Galileo e sistemata da Newton.

Nell'opera I primi principi (fondamenti) della scienza della natura (traduzione italiana di Luigi Galvani, Cappelli, Bologna 1959) Kant tratteggiò col solito rigore il delicatissmo tema del rapporto tra scienza e metafisica.
Con tutto il rispetto dovuto a Kant, non possiamo non notare che anch'egli rimase sostanzialmente fedele alla fisica settecentesca e di essa riprodusse un analogo dogmatismo. Ma a questo circolo vizioso di dogmatismo che sorge per contrastare un vecchio dogmatismo forse non c'è rimedio possibile, visto che all'inizio di ogni ragionamento v'è sempre qualche postulato indimostrabile rispetto al quale o c'è evidenza dei sensi, o c'è fede. 
Lo scetticismo, ad esempio, nel tentativo estremo di negare la possibilità di ogni conoscenza, finisce con l'essere persino più dogmatico (e contradditorio) delle dottrine fideistiche che vorrebbe combattere. Mi fosse possibile intervistare Sesto Empirico, per esempio, mi piacerebbe chiedergli come si fa ad un tempo essere medici e scettici, quindi del tutto privi di una scienza sillogistica della salute e della malattia!
Ma, ritornando a Kant, eccoci subito al centro della questione.
Era fermamente convinto che la meccanica razionale fosse il fondamento di tutta la fisica. 
Oggi, non c'è scienziato che condivida questa opinione, ma allora questo tipo di pensiero era davvero all'avanguardia.
Fiducioso, come del resto lo sono io e lo è Daniele Lo Giudice, nei poteri infallibili del calcolo e della matematica, egli affermò che non c'è conoscenza determinata di fatti ed eventi particolari che non «conterrà tanta scienza propriamente detta quanta è la matematica che in essa può venire applicata.» (1)
Però, avanza una riserva. La matematica è la garanzia della scienza, ma non arriva a chiarire il fondamento stesso delle scienze. A tale fine la metafisica è indispensabile. Solo la metafisica, infatti, è in grado di spiegare in quale modo proceda la costruzione dei concetti e di portare così in luce come la matematica stessa sia applicabile alla natura. In altre parole: occorrono pensieri extramatematici ed extra disciplinari per giustificare e fondare la disciplina stessa.
Però, accadde un fatto singolare e spesso reiterato: « Tutti filosofi della natura che vogliono procedere matematicamente nelle loro ricerche, si sono perciò sempre serviti (benchè inconsciamente) di principi metafisici, e dovevano servirsene, anche se protestavano solennemente contro ogni pretesa della metafisica sulla loro scienza.» (1)

A tale rifiuto presiede una concezione erronea, ben descritta con queste parole: «illusione di potersi immaginare a piacere tutte le possibilità e di giocare con concetti che non si lasciano nemmeno rappresentare nell'intuizione.» (1)
In sostanza, Kant ammette che solo la metafisica può dare alla matematica i suoi concetti fondamentali, che è come ammettere che fu solo la metafisica a fornire la geometria di concetti quali quelli di punto, linea, retta, curva, angolo, perimetro o superficie, circonferenza o diametro

A commento di ciò, in uno scritto di magistrale pregnanza, scrisse Ludovico Geymonat: «Non è questa la sede per discutere se la situazione denunciata da Kant si sia o no protratta (sia pure in termini alquanto diversi) fino a tempi molto recenti; certo è che essa costituì effettivamente - per lo meno nel secolo XVIII - un impedimento assai notevole al libero sviluppo della ricerca scientifica, e che giustificatissima fu quindi la decisione del Nostro di combatterla con energia. Se oggi non possiamo più seguirlo nel modo di condurre questa battaglia, ciò non significa tuttavia che che non ne approviamo lo spirito animatore. Un punto soprattutto ci persuade: l'energica affermazione kantiana che non basta "protestare" contro la metafisica pe riuscire in realtà a non farla; questo può anzi essere, in taluni casi, il più comodo artificio per contrabbandare (agli altri e, peggio ancora, a se stessi) una cattiva metafisica. » (2)

Resta che, secondo Kant, i fisici matematici non possano fare a meno del concetto metafisico di materia, insieme a quello di spazio e di vuoto.
Notevole, in questo quadro, che Kant ammetta che solo la materia e lo spazio relativo possano essere oggetto di esperienza, mentre il concetto di spazio assoluto non lo è.
Esso "non può essere oggetto d'esperienza". "Lo spazio assoluto non è dunque niente in sè e non è affatto un oggetto." 
Se parliamo di spazio assoluto è solo perchè, uno volta ammesso e riconosciuto uno spazio relativo, potremo sempre pensarne uno più grande che lo includa, od uno più piccolo che lo escluda. Forse potremmo compiere lo stesso ragionamento sul tempo assoluto e quello relativo. Con ciò siamo comunque al cuore del rapporto tra la relatività galileana ed i concetti assoluti di Newton. 
Illuminante in tal senso sono le nozioni di movimento assoluto e relativo, ovvero reale. Da qui venne la distinzione tra composizione dei movimenti e composizione delle forze, tra suddivisione dello spazio e suddivisione della materia.

«Ma il punto più originale di tutta l'opera in esame - scrive Geymonat - è costituito dalla critica alla nozione di atomo e, di conseguenza alla concezione meccanicistico-atomistica della natura. Anche se la concezione "dinamista" contrappostale da Kant è ben lungi dall'accontentarsi ( e del resto non riuscì a persuadere neanche i contemporanei del Nostro), questa debolezza della pars construens non toglie nulla al valore della pars destruens. E' un valore che dipende sia dalle osservazioni particolari, sia più ancora dal deciso atteggiamento metodologico che essa rivela: l'atomismo costituisce - per Kant - il frutto più manifesto del dogmatismo metafisico inconsapevolmente accolto dai fisici matematici (sotto il manto delle loro clamorose proteste antimetafisiche) e quindi la battaglia contro di esso assume il significato di battaglia generale contro tutti gli equivoci della cattiva metafisica.» (2)

Perchè Kant vide nell'atomismo una cattiva metafisica?
La risposta è nelle sue stesse parole: l'atomismo «consiste essenzialmente nell'ammettere un'assoluta impenetrabilità della materia primitiva, un'assoluta omogeneità di questa sostanza in cui non sussistono che le sole differenze di figura, e una indistruttibilità della coesione della materia in questi corpuscoli fondamentali.» (1)
Kant si dimostrò disposto ad accettare o quantomeno a discutere l'esistenza del vuoto assoluto, "dato che esso è necessariamente posto prima di ogni materiale", ma respinse recisamente il dogma dell'impenetrabilità e della indistruttibilità della materia atomica. Asserì,che si trattava di affermazioni prive di qualsiasi possibilità di verifica, "tutte cose che nessun esperimento può né determinare né rivelare". E le battezzò spregiativamente come qualità occulte.
Come conseguenza nefasta dell'atomismo, inoltre, Kant vide acutamente che da esso derivava una spiegazione altrettanto dogmatica per spiegare la differente densità dei diversi materiali. Tutto si spiegava con la diversa composizione di vuoto e di pieno di ogni corpo, come a dire che l'essere è composto di essere e non-essere.

All'atomismo dogmatico Kant contrappose la sua visione "dinamista" e poi la teoria dell'etere sottilissima in cui la forza repulsiva sarebbe infinitamente superiore a quella attrattiva. Certo, dogmatismo metafisico anche questo, niente più che una conseguenza d'Empedocle anzichè di Parmenide.
Per questo il dubbio rimane: si può davvero sfuggire alla morsa metafisica quando si pigia sull'accelleratore di una nuova teoria fisica?


note:
1) Immanuel Kant - I primi fondamenti della scienza della natura - Cappelli, Bologna 1959
2) Ludovico Geymonat - La ragione - Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1994

mercoledì 10 luglio 2013

I sofisti

I sofistidi Daniele Lo Giudice

Con l'affermarsi della democrazia e della partecipazione ad Atene, che nel corso del V° secolo a.C. era diventata una potenza anche militare oltre che commerciale, vennero ad assumere grande importanza le abilità politiche ed in particolare quelle oratorie.
In tale contesto, la retorica, cioè l'arte di costruire ed esporre discorsi incisivi, persuasivi, coerenti e ben ordinati assunse grande importanza, e con essa crebbe l'interesse per la dialettica, cioè il dialogo vivo, il confronto e lo scontro di posizioni, nonchè l'arte di contendere e di confutare, ovvero l'eristica (che deriva appunto da eris, contesa).
Fu allora che si cominciarono a vedere per Atene degli stranieri, anche se greci, che approfittando dell'occasione e della necessità, aprirono scuole a pagamento per insegnare l'arte di parlare, ed in particolare l'arte di parlare in pubblico ed ottenere i consensi dell'uditorio.
le testimonianze concorrono tutte nella medesima direzione: questi maestri, detti sofisti, furono un prodotto di importazione. Venivano ad Atene da ogni parte della Grecia; solo in un secondo tempo vi fu un'ondata di sofisti ateniesi, ma la loro importanza nella storia del pensiero, con la sola eccezione di Isocrate (il quale, peraltro, prese anche risolutamente posizione contro i sofisti, pur mantenendo moltissime posizioni comuni agli stessi) e, forse, di Antifonte, fu modesta.
I destinatari sociali delle scuole sofistiche non furono tanto i rampolli delle grandi famiglie aristocratiche, quanto i figli dei nuovi ricchi, dei mercanti e degli artigiani più prosperosi. Per stare in società c'era bisogno di cultura ed educazione, c'era bisogno di formarsi come uomini civili, più colti, anche per evitare figuracce.

Non bisogna credere, infatti, che Atene fosse allora già il centro della civiltà greca. Per lungo tempo la più grande città greca fu Mileto, che per ironia della sorte si trovava sulle coste dell'Asia Minore, cioè nell'odierna Turchia.
La stessa filosofia era nata a Mileto. I più grandi filosofi dei primi secoli ebbero i natali a Mileto e nelle vicine città di Samo, come Pitagora, ed Efeso, come Eraclìto.
La comparsa dei sofisti corrispose pertanto ad una sorta di sprovincializzazione di Atene ed è solo grazie a questo processo che si spiega, in parte, la sua ascesa politica, economica, militare e culturale.

Nei libri storici di Tucidide c'è un discorso di tipico impianto sofista: il celebre Epitafio di Pericle, pronunciato in occasione dei funerali dei caduti nella guerra del Peloponneso.
Siamo nel 431 a.C. L'esame dettagliato ci porterebbe troppo lontano dai temi che affrontiamo in questa sede ma, un accenno ci consente, al contrario, di avvicinarci.
Lo storico Domenico Musti ha scritto che l'Epitafio pericleo rappresenta il manifesto della teoria democratica, e questo indipendentemente dal fatto che sia più o meno autentico. Tucidide, che pure non fu un simpatizzante di Pericle, nemmeno un simpatizzante della democrazia, ebbe l'indubbio merito di condensare nel testo le più importanti convinzioni del grande uomo politico ateniese. Sono i pilastri della teoria democratica antica, ed allo stesso tempo le chiavi per comprendere quella moderna.
Non credo di dire una sciocchezza, se affermo che molti sofisti impararono da Pericle e non già che i sofisti, in particolare Protagora, insegnarono a Pericle.
Nell'uomo Pericle e nel suo discorso ognuno può rinvenire sia il meglio che il peggio della retorica politica, in particolare quella degenerazione demagogica che è alla base di tutte le dittature su base popolare, e del consenso di massa che riescono ad ottenere i partiti populisti nelle democrazie.
Ma, sia Tucidide che Aristotele in veste di storico (quello che scrisse la Costituzione degli ateniesi) concordano su un punto: il fenomeno dei demagoghi è successivo a Pericle. Questi non fu mai un demagogo, e il tono, il carattere, il contenuto dell'Epitafio riflette semmai, nei punti più rilevanti, un grandissimo realismo, un fiuto politico eccezionale, un senso del tempo storico e della direzione degli eventi straordinario.
Personalmente ci trovo anche il filosofo politico, quello che seppe anticipare anche alcuni temi importanti nell'etica e nella politica di Aristotele. Ma, questa potrebbe essere un'opinione azzardata.

Quel poco di capacità demagogica che si può evidenziare nel discorso di Pericle sta nella persuasività oratoria. Le stesse cose, dette in altro modo, ad esempio secondo un'asciutto stile filosofico, non avrebbero avuto la medesima efficacia.
Musti sottolinea giustamente che la forza del discorso di Pericle non sta nel rivolgersi al popolo dicendo: "Voi dovete..."
Pericle disse: "Noi siamo già...quello che altri dicono che dovremmo essere."
Ed ancora andrebbe evidenziato il carattere bipartisan, cioè unitario e rappresentativo dei sentimenti potenzialmente presenti in tutti gli ateniesi. Non c'è un filo di polemica diretta con avversari interni. Quando si sottolinea la diversità della condizione ateniese da quella spartana, si dice esplicitamente : "noi siamo così, ovvero più liberi, più indisciplinati, più portati a goderci la vita ed cercare la felicità perchè abbiamo voluto, tutti, essere così. E dove è scritto che noi siamo militarmente meno abili perchè ci rifiutiamo di faticare e soffrire per tutto il giorno e per tutta la vita?"
Che è come dire, è inutile nascondersi dietro all'ipocrisia. Chi parla di perdita degli antichi valori di disciplina e di sacrificio, chi detesta questo spirito di libertà nel quale ognuno è in grado di costruirsi una vita migliore, in realtà vorrebbe solo mantenere il suo privilegio, tenere solo per sé l'opportunità di una vita agiata e costringere gli altri ad una vita di sacrificio.
Pericle insiste su questo punto in modo tale da prestare il fianco a critiche di edonismo e permissivismo. E persino dalle file sofiste, udite udite, vi sarà chi, come Prodico di Ceo, insegnerà e propaganderà idee del tutto opposte. Ma il bersaglio è sbagliato, perchè a ben leggere Pericle, non vi è alcun estremismo edonistico, ma solo l'ideale di una vita equilibrata, inserita in una visione ottimistica e fiduciosa, in netto contrasto con il classico pessimismo greco.

Va compreso che senza il clima di tolleranza e di fiducia realizzatosi sotto Pericle né i sofisti, né altre scuole filosofiche avrebbero potuto trovare spazio ad Atene, una città restia ad accettare le novità ed i nuovi valori, un ambiente nel quale anche i democratici erano fondamentalmente conservatori e tradizionalisti, nonchè molto legati alla religione ufficiale.
Pericle ebbe bisogno dei sofisti, in particolare di Protagora, per dare spessore e penetrazione a quella che potremmo chiamare la sua politica culturale, ed i sofisti, o, almeno, una parte di essi, ebbero bisogno del sostegno e dell'incoraggiamento di Pericle.

Ovviamente non era sufficiente insegnare a saper esporre le proprie idee in modo sintetico, occorreva anche sapere cosa dire in modo persuasivo: i nuovi maestri avevano chiaro che era necessaria una paideia, cioè una cultura umanistica; gli ateniesi dovevano e potevano conoscere un po' meglio la tradizione poetica orale e scritta. In essa si potevano trovare esempi ed argomenti, con essa si rimpinguavano discorsi altrimenti banali e scontati, privi di riferimenti significativi e pregnanti.
La tradizione culturale greca, in particolare quella poetica, era vista come formativa ed educativa.
La parola sofista non ebbe all'inizio un significato dispregiativo, anche se, considerando l'assoluta vicinanza di significato che avrebbe oggi il termine intellettuale, possiamo legittimamente immaginare che la gente comune usava la parola sofista esattamente come oggi usa la parola intellettuale, ovvero con un misto di rispetto, di ammirazione, ma anche di critica. L'intellettuale è spesso un inconcludente chiacchierone, un cavillatore, un piagnone, e tali dovevano apparire moltissimi sofisti, a volte insopportabilmente saccenti, antipatici e parolai.

Possiamo ancora legittimamente immaginare che la gente comune non facesse grandi differenze non solo tra un sofista e l'altro, ma anche tra un sofista di professione ed un amante della sofia, un ricercatore di verità, ovvero un filosofo.
Per la gente erano sofisti anche Anassagora, Socrate, i suoi allievi, come Eschine e lo stesso Platone.

Nella loro specifica posizione, i veri filosofi, distinzione a cui Platone mostrò di tenere molto, cercarono di prendere le distanze dal mucchio dei sofisti, molti dei quali certamente di scarsa levatura morale, oltre che intellettuale, nulla più che avvocaticchi di gente di malaffare.
E il principio della distinzione fu subito chiaro: mentre il vero filosofo è un cercatore di verità, e quindi di principi supremi, il sofista è nient'altro che un facitore di discorsi, persino indifferente ai contenuti ed alle testimonianze che reca pubblicamente.
Ciò che conta è la forma, non il contenuto. Oggi il sofista può parlare persino appassionatamente a favore di una tesi, che so, la pace con Sparta, e domani dire o insegnare a dire esattamente il contrario, e cioè l'esigenza di una guerra.
Ora, tutto questo risulta sconcertante ed imbarazzante anche oggi, figuriamoci allora, in una città particolarmente morigerata come Atene. Il movimento sofista creò dunque anche imbarazzo e fastidio, specie tra i galantuomi del tempo, e non ha molta importanza se essi fossero aristocratici o democratici o persino sostenitori di una tirannia.
Per il tipico galantuomo "tutto d'un pezzo", ancor più che per il vero filosofo di scuola anassagorea o eraclitea, o pitagorica, il sofista rappresentava dunque anche una minaccia all'ordine ed ai costumi, un vero e proprio attentato all'ordinamento morale ed intellettuale della società.
Non credo sia utile, pertanto, credere che la pratica dell'insegnamento a pagamento si diffuse facilmente e senza incontrare ostacoli.
Gli stessi sofisti dovettero in qualche modo darsi delle regole, e professare, almeno esteriormente, una certa castigatezza.
Spesso si presentarono come maestri di virtù. Lo dichiara lo stesso Mario Untersteiner, quando scrive, citando Adolfo Levi, nella Premessa al suo lavoro I sofisti: "tutti sofisti ... dichiaravano d'impartire ai loro discepoli un insegnamento rivolto a finalità insieme individuali e sociali."
Ma a prescindere da questo proposito dichiaratamente comune, l'Untersteiner, come la quasi stragrande maggioranza degli studiosi, afferma con grande chiarezza che nei sofisti "non devesi scorgere una scuola filosofica abbastanza uniforme e coerente."
In realtà ognuno professava una propria visione del mondo e dell'uomo, nutriva personalissime opinioni sugli dei, la religione, i limiti della conoscenza umana; e probabilmente anche sul concetto di virtù, nonostante l'apparente unitarietà, si registrò una gamma molto vasta di posizioni.
Tra il già menzionato Prodico di Ceo e Protagora, non pare esservi nessuna convergenza. Ma anche tra Gorgia e Protagora le differenze e le contrapposizioni, come vedremo, saranno inconciliabili. Antifonte sarà l'antiGorgia per eccellenza, e pure esprimerà una posizione antitetica a quella di Prodico. Ippia, infine, per quanto dipinto da Platone come un vanesio pieno di boria, fu una sorta di mistico dell'idea di giustizia, un bravuomo che seppe comprendere molto della natura umana, e, forse, uno dei pochi democratici convinto, per prima cosa che, se si vuole la democrazia, della necessità di regolarla non in modo arbitrario, secondo convenienze di parte, ma con criteri obiettivi.

Per inquadrare meglio il fenomeno a noi interessa la critica che filosofi posteriori e contemporanei rivolsero ai sofisti.
E' stato osservato che, sotto un certo aspetto, il giudizio di Platone e di Aristotele si è rivelato esageratamente negativo. Per Platone, in particolare, "sofista" divenne sinonimo non già di sapiente, ma di imitatore del vero sapiente, quando non di mistificatore della sapienza a fini di lucro.
Senza dimenticare che chi insegna solo per lucro, quando non abbia l'autorità sufficiente, non può imporsi più di tanto come maestro, ma deve spesso accondiscendere ai capricci ed ai desideri dei propri allievi, onde evitare il licenziamento, è certamente vero che in tutti i sistemi a pagamento si nasconde spesso un sottile gioco nel quale la frode è sempre in agguato.
La lezione si protrae oltre il lecito. Un programma può presentarsi esageratamente lungo e complesso, quando potrebbe essere, al contrario, breve e conciso. C'è sempre un "di più da imparare" e non si sa mai quando arrivi la fine. Insomma, nella propria debolezza di salariato, il sofista non naviga in una condizione aurea ed invidiabile, ma in una precaria dipendenza dal padrone che lo paga, il padre del suo allievo, se lo paga, ed, allo stesso tempo si trova nella necessità di perpetuare all'infinito il proprio compito, onde evitare di trovarsi troppo presto senza lavoro.
A lungo andare, anche nei migliori, animati da una sincera passione o vocazione per l'insegnamento, si può essere infiltrata una forma di sottile ipocrisia.
Platone, che pure non si faceva pagare, ebbe allievi terribili come i tiranni di Siracusa; ma di gente come Dioniso sono piene le strade, le famiglie dei ricchi e dei potenti, come quelle dei poveri e dei deboli. Non possiamo dubitare che pure Aristotele ebbe grandissime difficoltà come precettore di Alessandro Magno, un ragazzo inquieto e smanioso di gloria, anche se, probabilmente, di grande intelligenza.
Ecco, allora, che il problema dei sofisti, tutto sommato, assume una luce diversa, diventa anche il problema della difficoltà dell'insegnante in generale, e dell'insegnante prezzolato in particolare, l'insegnante che deve piacere al padrone di casa ed alla signora, l'uomo che deve agire con tatto, prudenza, sapienza mondana.
Tutto questo avrebbe potuto portare al successo personalità fondamentalmente viscide. Non c'è dubbio, allora, che sulle pesanti considerazioni di Platone ed Aristotele influirono anche questi elementi.

Sarebbe interessante comprendere perchè Protagora incontrò comunque un certo consenso, mentre Anassagora venne rifiutato non solo dagli ateniesi comuni, ma persino da Socrate ( e da Platone).
Lo storico A. Heuss ha osservato che ciò non dipendeva solo dall'ambiente ateniese, ma anche da atteggiamenti intrinseci alle filosofie professate: i filosofi della natura di impronta ionica erano esoterici: le loro conoscenze non erano destinate a tutti.
Al contrario, i sofisti cercavano la pubblicità. "Pur avendo anch'essi teorie complicate, accessibili solo con uno sforzo mentale, ritenevano che almeno le loro conclusioni potessero acquistare una portata più generale, ed in un certo senso avevano ragione.
Anzitutto essi volevano spiegare l'uomo, e quindi questa illuminazione interessava gli uomini stessi. In realtà le loro scoperte erano stimolanti. Mentre i "fisici" avevano decifrato il mondo fenomenico come "natura" (physis), ai loro occhi l'ordinamento umano si stendeva su due piani. Da un lato esso si presentava essenzialmente come il regno della convenzione (thésis), dall'altro rivelava una realtà esistente per natura. Questo smascheramento della società poteva condurre a risultati sorprendenti. Per esempio si diceva che gli uomini seguono un istinto incessante di potenza e che il loro ordinamento sociale non è altro che il prodotto di una scelta arbitraria. Era facile giungere alla conclusione normativa che così, appunto, deve essere e che il più forte, quando prevale, ha sempre il diritto dalla sua parte."

In realtà il problema non è questo. Alcuni sofisti evidenziarono, piuttosto, e forse per primi, che tra natura, o meglio, istinto, e leggi e quindi educazione a rispettare leggi e regole, non vi è coincidenza, ma semmai contrapposizione. L'uomo si trova come tirato da due nature contrapposte, quella che poi Platone chiamerà poi come l'anima concupiscente e quella razionale. Nello spirito di Pericle esse trovano una soluzione armoniosa e compatibile, non deve esistere questo dualismo, di fatto non esiste, noi siamo già diversi!
E questa diversità, dirà ancora Pericle, è sotto i nostri occhi. Per noi non è vergognoso l'essere poveri, è vergognoso il non fare nulla per uscire dalla povertà. Nel rispetto della convivenza civile e delle sue regole, si può lavorare il giusto, faticare il giusto per conseguire benessere. Ogni singolo individuo è responsabile del suo futuro. (Schiavi a parte, ovviamente. Non lo si dimentichi mai.)
Questa teorizzazione implica di per se che il più forte, ma in una civiltà, il più abile, attivo ed intelligente, faccia più strada del meno abile, e questo, indipendentemente dalle sue origini sociali.
Coerentemente con questo impianto teorico, un certo senso della giustizia vorrebbe che a tutti fossero date medesime opportunità educative. E fu questo il limite della teoria periclea della democrazia, perchè non trovò una reale applicazione pratica.

La riduzione al conflitto tra egoisti e solidali che attuarono alcuni sofisti, fu, quindi, una rottura unilaterale, parziale, e, tutto sommato, politicamente irresponsabile, dell'ideologia liberal democratica di Pericle, e quasi un invito alla lotta di classe, da un lato, ed ad un rinchiudersi in una socialmente sterile ricerca del vero bene dall'altro.
Le conseguenze non mancarono di farsi sentire: l'epoca di Socrate e di Platone rispecchiò la degenerazione delle idee e dei costumi, ed è su questa decadenza della civiltà e della democrazia che si sviluppò una grande filosofia.

martedì 2 luglio 2013

Epicuro

Epicuro
di Daniele Lo Giudice

moses


Il vivo interesse che specie tra i poco informati delle cose di filosofia, e sono purtroppo molti, si incontra per Epicuro, è forse dovuto ad un gravissimo fraintendimento.
Preso a modello di un'etica del piacere dei sensi e di una vita votata a fuggire i dispiaceri, epicureo è diventato sinonimo di gaudente e di edonista, quando non di persona frivola e superficiale, priva di spiritualità e totalmente disimpegnata socialmente e politicamente. Epicureo in molti casi equivale anche a materialista e non giurerei sul fatto che qualcuno si sia sentito in diritto di usarlo in senso spregiativo.
Di vero in questa vulgata caricaturale c'è ben poco, anche se, qualcosa c'è. Ma prima di vedere il lato negativo o discutibile, cerchiamo di capire bene il lato positivo.
Epicuro disse davvero cose nuove sulla vita, parlò del "piacere di esistere", riconoscendo ed affermando il valore della vita in sé, ovvero qualcosa che nella filosofia greca precedente non era apparso in modo del tutto chiaro.
Oserei dire che nella vulgata su Epicuro solo la considerazione sul disimpegno politico risponde a verità, ma sarebbe sbagliato vederla come una originale massima epicurea. In realtà, già Aristotele aveva affermato la superiorità della vita contemplativa, cioè teoretica e filosofica, su quella attiva, e quindi anche politica.
Di veramente nuovo, in Epicuro, comparve semmai un parziale svilimento della stessa vita teoretica. L'aristotelico doc, il peripatetico più conseguente condivedeva con i suoi simili ed i suoi amici una passione smisurata per la conoscenza e per la ricerca. La sua vita era ricerca, curiosità insaziabile per i fenomeni naturali, per le teorie filosofiche, per le conquiste della medicina, le scoperte matematiche o le costituzioni politiche. Vita contemplativa, certo, ma attivissima ed instancabile.

In Epicuro il lato cognitivo della vita contemplativa è rigettato sullo sfondo, in modo quasi isocratico. C'è un sapere utile alla felicità ed un sapere inutile, anzi dannoso.
Un affanno, un fardello di dolori e fatiche.
La filosofia è la via per liberarsi di questi affanni e di queste ansie: è uno strumento per raggiungere la felicità. Per questo, anche la ricerca scientifica ha un carattere limitato. Non muove dal desiderio della verità, ma dal bisogno di liberarsi di tutto ciò che è motivo di inquietudine.
"Se non fossimo turbati dal pensiero delle cose celesti e dalla morte - scrisse - e dal non conoscere i limiti del dolore e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura." Parole che mostrano un certo disprezzo per la curiosità ed il desiderio della conoscenza in sé, come se tutto il bisogno di conoscere nascesse dalla paura dell'ignoto.
Questa massima esprime in modo chiarissimo il pensiero fondamentale di Epicuro circa scienza e filosofia. Il loro compito esclusivo è liberare gli uomini dalla superstizione, in primo luogo dal timore degli dei e del soprannaturale. Poi dal timore della morte. "Gli dei non si occupano delle faccende umane." "...quando ci siamo noi, la morte non c'è. Quando c'è la morte, non ci siamo noi." Così, nella lettera a Meneceo, uno dei pochi scritti di Epicuro che possediamo per intero, viene risolto laconicamente il problema.

«Abìtuati a pensare che per noi uomini la morte è nulla - scriveva Epicuro - perché ogni bene e ogni male consiste nella sensazione, e la morte è assenza di sensazioni. Quindi il capir bene che la morte è niente per noi rende felice la vita mortale, non perché questo aggiunga infinito tempo alla vita, ma perché toglie il desiderio dell'immortalità. Infatti non c'è nulla da temere nella vita se si è veramente convinti che non c'è niente da temere nel non vivere più. Ed è sciocco anche temere la morte perché è doloroso attenderla, anche se poi non porta dolore. La morte infatti quando sarà presente non ci darà dolore, ed è quindi sciocco lasciare che la morte ci porti dolore mentre l'attendiamo. Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c'è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci. » (1)

Il sapere e la ricerca hanno una finalità pratica; essa non ha un valore in sè, non è il fine dell'uomo, perchè è il benessere dell'uomo il vero fine. Da Aristotele, se è vero che Epicuro frequentò il Liceo quando giunse ad Atene, diciottenne, trasse dunque una visione molto parziale del problema esistenziale. L'uomo di eccellenza non cerca di liberarsi dagli affanni materiali della vita e dalle angosce dell'anima per avere il tempo di studiare e filosofare, ma si limita ad usare questo tempo per fuggire il dolore e trovare il vero piacere, che altro non è che la liberazione del dolore.
Si dice anche che Epicuro frequentò qualche lezione di Senocrate, il successore di Platone alla guida dell'Accademia. Di certo non ne condivise la teoria della conoscenza, teoria per la quale la sensazione è sempre sia vera (per un verso) che fallace ed ingannevole per un altro. Di certo non ne condivise nemmeno la presunta superiorità del vero sapere sull'opinione.
Epicuro, infatti, affermò che la sensazione è sempre vera, ed è l'unica forma di conoscenza che possediamo. In questo fu seguito dagli stoici, che pure contesteranno la sua visione delle cose, evidenziando che la scelta etica si fa per amore della virtù.
Già da queste scarne annotazioni appare quindi che l'etica di Epicuro ha un carattere consolatorio-terapeutico e mirerebbe più ad insegnare una saggezza ed un'arte di vivere che una vera filosofia.
Potremmo pensare che essa fu una risposta ad una sorta di domanda sociale, espressa dall'inquietudine, dall'angoscia e dalla stanchezza. Abituati a pensare che le nevrosi siano un fenomeno del tutto moderno, anzi contemporaneo, forse non abbiamo mai considerato che da quando mondo è mondo l'individuo umano è perseguitato da incertezze, dubbi, paure di ogni tipo, e che molte di queste sono inconsce o rimosse.

Vediamo meglio in cosa consisteva la terapia dell'anima patrocinata da Epicuro.
Scriveva: «Per questo motivo noi diciamo che il piacere è il principio ed il fine di una vita felice. Noi sappiamo che esso è il bene primo, connaturato con noi stessi, e da esso prende l'avvio ogni nostra scelta e in base ad esso giudichiamo ogni bene, ponendo come norma le nostre affezioni. Ma proprio perché esso è il bene primo ed è a noi connaturato, noi non ci lasciamo attrarre da tutti i piaceri; al contrario, ne allontaniamo molti da noi quando da essi seguano dei fastidi più grandi del piacere stesso. Allo stesso modo consideriamo molti dolori preferibili ai piaceri quando la scelta di sopportare il dolore porta con sé come conseguenza dei piaceri maggiori. Tutti i piaceri quindi che per loro natura sono a noi congeniali sono certamente un bene; tuttavia non dobbiamo accettarli tutti. Allo stesso modo tutti i dolori sono un male, ma non dobbiamo cercare di sfuggire a tutti loro. Queste scelte vanno fatte in base al calcolo ed alla valutazione degli utili. Per esperienza sappiamo infatti che a volte il bene è per noi un male ed al contrario il male è un bene. Consideriamo un grande bene l'indipendenza dai desideri non perché sia necessario avere sempre soltanto poco, ma perché se non abbiamo molto sappiamo accontentarci del poco. Siamo profondamente convinti che gode dell'abbondanza con maggiore dolcezza chi meno ha bisogno di essa e che tutto ciò che la natura richiede lo si può ottenere facilmente, mentre ciò che è vano è difficile da ottenere. Infatti, in quanto entrambi eliminano il dolore della fame, un cibo frugale o un pasto sontuoso danno un piacere eguale, e pane e acqua danno il piacere più pieno quando saziano chi ha fame. L'abituarsi ai cibi semplici ed ai pasti frugali da un lato è un bene per la salute, dall'altro rende l'uomo attento alle autentiche esigenze della vita; e così quando di tanto in tanto ci capita di trovarci nell'abbondanza, sappiamo valutarla nel suo giusto valore e sappiamo essere forti nei confronti della fortuna. »

Pierre Hadot nel suo stimolante ritratto della filosofia antica (2) afferma con decisione che il punto di partenza dell'epicureismo sta nell'esperienza della carne: «Grida la carne: non aver fame, non aver sete, non aver freddo; chi abbia queste cose e speri di averle, anche con Zeus può gareggiare in felicità.» (3)
« Qui la carne - scrive Hadot - non è una parte anatomica del corpo, ma in senso quasi fenomenologico e del tutto nuovo, a quanto pare, in filosofia, il soggetto del dolore e del piacere, ovvero l'individuo.»
La carne non è separata e contrapposta all'anima, ma è tutto ciò che la condiziona, la vera fonte della sofferenza e del piacere.
Diventa imperativo liberare la carne dalla sofferenza.
«Per Epicuro - prosegue Hadot - la scelta socratica e platonica dell'amore e del Bene è un'illusione: in realtà l'individuo si muove solo per cercare il proprio piacere e il proprio interesse. Tuttavia il ruolo della filosofia consisterà nel saper cercare in modo ragionevole il piacere, vale a dire nel cercare il solo vero piacere, il semplice piacere di esistere. Tutta l'infelicità, tutto il dolore degli uomini derivano, infatti, dalla loro ignoranza del vero piacere. » (idem)

Gli uomini, dunque, ignorano il vero piacere e sono incapaci di raggiungerlo. La loro perenne insoddisfazione dipende o dal fatto che sono costretti all'astinenza, perchè poveri, o perchè sopraffatti dall'abbondanza, perchè ricchi e spreconi. Non avendo misura, rovinano tutto, sia l'abbondanza che la penuria.
« Si può dire - conclude Hadot - in certo senso, che la sofferenza degli uomini derivi soprattutto dalle loro opinioni vuote, dunque dalle loro anime. La missione della filosofia, la missione di Epicuro, sarà dunque in primo luogo terapeutica: sarà necessario curare la malattia dell'anima e insegnare all'uomo il vero piacere.» (idem)
Secondo Epicuro, esistono piaceri "dolci e lusinghieri", che si propagano nella carne provocando un'eccitazione violenta ed effimera. Ebbene, questi sono da evitare! Perchè cercando queste delizie che non soddisfano mai, l'uomo va incontro al dolore. Questo tipo di apparenti piaceri, è definito come "mobile" o "in movimento".
Ciò che l'uomo deve cercare è al contrario il piacere stabile, "lo stato di equilibrio". Un corpo appagato, raccolto in sé stesso, che non prova fame, sete, freddo.
Scriveva in proposito:« Perchè è in vista di questo che compiamo tutte le nostre azioni, per non soffrire né avere turbamento. Quando noi avremo ciò ogni tempesta dell'anima si placherà, non avendo allora l'essere animato alcuna cosa da appetire come a lui mancante, né altro da cercare con cui rendere completo il bene dell'anima e del corpo. E' allora infatti che abbiamo bisogno del piacere, quando soffriamo perchè esso non c'è; quando non soffriamo non abbiamo bisogno del piacere.»

Abolito il bisogno, sembra dire Epicuro, siamo in grado di intendere qualcosa che non sempre è a portata di mano: il piacere di esistere.
Questo è lo straordinario ed era già presente in noi, solo che non ne eravamo consapevoli.
Hadot non manca di far notare come Rousseau riprenderà questo pensiero nelle Fantasticherie del passeggiatore solitario.
«Di che si gioisce in una situazione simile? Nulla a noi estraneo, nulla se non noi stessi e la nostra esistenza, finchè questo stato dura siamo autosufficienti come Dio.» (4)

Prenderla come una rivelazione, oppure cercare di verificarne il fondamento in noi stessi?
A chiunque sarà capitato di attraversare momenti simili. Ma in genere, solo pochi non saranno caduti nella tentazione di riempire il vuoto apparente con un pensiero, una volontà, o appunto un desiderio. Non si capisce veramente Epicuro se non si prova a rimanere in questo vuoto. Gli uomini, cioè tutti noi, sono tormentati da appetiti e solo una parte di essi sono naturali e rispondono ad un reale bisogno della carne. Diceva Epicuro che non sono naturali né necessari, ma prodotti da opinioni vuote, desideri senza limiti di ricchezza, gloria, immortalità e godurie effimere.
Bisogna dunque praticare un'ascesi, annullando quei desideri che non danno la pace dell'anima ma la rendono inquieta.


La fisica di Epicuro
La minaccia più grande alla felicità raggiunta è il timore della morte.
Per vincerla, non basta quanto già detto sopra. Occorre un po' di fisica. Sì, gli dei esistono, dice Epicuro - ma non hanno alcuna preoccupazione di come vanno le cose quaggiù. Non governano il mondo, non son loro che fan piovere e provocano terremoti. I fenomeni naturali hanno origini naturali.
Epicuro era rimasto attratto irresistibilmente dalla spiegazione fisica di Democrito. E la fece parzialmente sua, senza approfondirla o discuterla in modo significativo. Ma vi introdusse una variazione rivoluzionaria con un'affermazione che si opponeva al dogmatismo di Democrito e Leucippo circa la necessità e il fato. Nulla avveniva a caso, secondo la vecchia scuola atomista. Ma questa era una negazione della libertà umana, che invece Epicuro rivendicava.
Proviamo a spiegare.
Il mondo non è stato creato da una potenza divina - dice Epicuro - il mondo è eterno. Dal non-essere non può venire qualcosa. L'universo eterno è quindi costituito dai corpi pieni e dallo spazio, ovvero il vuoto, che sarebbe il non essere. I corpi che possiamo vedere e toccare sono il risultato di una composizione di atomi, cioè parti indivisibili ed eterne a loro volta, di numero enorme ma non infinito. Il loro movimento non corrisponde ad un disegno provvidenziale e finalistico.
Gli atomi cadono nel vuoto, e non appena deviano di un minimo dalla loro traiettoria si incontrano tra loro formando corpi composti.
Il movimento e le modificazioni della realtà, si spiegano con l'incessante movimento degli atomi. Ciò che nasce e ciò che muore e si decompone è il risultato di questo movimento invisibile.
Secondo Epicuro, esistono infiniti mondi (il che pare una contraddizione rispetto alla precedente affermazione sul numero degli atomi, che ho preso dall'Abbagnano) e sono soggetti a nascita e morte, esattamente come diranno anche gli stoici, probabilmente sotto la stessa influenza di dottrine orientali importate dall'India durante le campagne di Alessandro Magno.

Epicuro non spiega il motivo della deviazione degli atomi e del loro comporsi in forme che sono l'anima dei viventi (come dicevano gli aristotelici). E quantomeno noi moderni non siamo venuti in possesso di scritti e testimonianze che portino ad una spiegazione del tipo attrazione o repulsione. Si limita ad affermare che ogni atomo possiede una sorta di principio di spontaneità interna che lo rende libero di deviare.
In Epicuro, dunque, il caso prevale sulla necessità, e di questo caso non si può avere scienza se non, appunto, una scienza limitata alla sua constatazione.
Cosa avviene con la morte?
Che noi non siamo più noi stessi, perchè gli atomi che ci compongono si scindono e tornano liberi. Noi ci siamo più, e quindi la morte non ci riguarda.
Negazione che l'anima sopravviva al corpo e negazione che possa esistere un'anima che non è corpo, nemmeno della specie più sottile come diranno gli stoici. Anche l'anima è un corpo composto di atomi più piccoli e mobili, ed anch'essi con la morte si scompongono e tornano liberi.
E' qui che la forza terapeutica della filosofia epicurea vacilla clamorosamente, perchè la più grande consolazione dell'anima è appunto la speranza nella vita eterna.
Ed è, in fondo, questa stessa speranza che ci tiene aggrappati alla vita, che ci da la forza di continuare ad esistere.
Non sarà un caso che i seguaci di Epicuro spariranno più velocemente di quelli delle altre scuole filosofiche. La capacità di presa di una simile teoria fisica non era grande né nei confronti degli spiriti scettici ma curiosi, né nei confronti dei più disponibili ad un percorso di evoluzione spirituale.
Allora, come ora, del resto, la domanda di spiritualità trovò risposte più appaganti nello stoicismo e nelle nuove religioni. Il cristianesimo era per così dire già nell'aria, pur mancando ancora quasi trecento anni all'appuntamento con la storia.
Ottimo nell'affermare il valore della vita materiale ed il suo senso, anche se l'analisi manca di evidente profondità circa i sentimenti ed un ragionamento sul dolore che nasce dalla purezza del sentimento, dall'attaccamento alla famiglia, alla donna, ai figli, alla patria ed a tutto quello che non è strettamente piacere sensibile, Epicuro non concepì il valore della vita oltre la vita. Non ci arrivò e non possiamo certamente fargliene una colpa. Il suo era un razionalismo limitato, probabilmente un po' arido. La vera ragione è più ragionevole nel senso che accoglie e comprende anche le ragioni del sentimento e della speranza.

Contro idee certamente diffuse ai suoi tempi ed anche il comune sentire popolare, Epicuro assunse una precisa posizione contro il presunto intervento divino nel mondo. Prendendo spunto dall'esistenza del male, egli affermò: «La divinità o vuol togliere i mali e non può, o può e non vuole o non vuole né può o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente; e la divinità non può esserlo. Se può e non vuole, è invidiosa e impotente, quindi non è la divinità. Se non vuole e non può, è invidiosa e impotente, quindi non è la divinità. Se vuole e può (che è la sola cosa che le è conforme) donde viene l'esistenza dei mali e perchè non li toglie?»
Ragionamento che non fa una grinza rispetto a scenari generali, ma che tuttavia non pare efficace sul destino dei singoli, giacchè anche ai greci pagani era evidente che preghiera e diversi atteggiamenti potevano cambiare la vita delle persone e persino il loro destino.
E sarà su questo che gli stoici faranno leva, pur asserendo che il destino generale del mondo è necessariamente immutabile.

La canonica o il criterio della verità
Anche per quanto riguarda quella che potremmo chiamare logica epicurea, si possono notare alcune anticipazioni dello stoicismo. Infatti, anche per Epicuro la sensazione è sempre vera. La diversità risiede nel fatto che Epicuro fondava la sensazione sulla teoria atomistica, cioè sul flusso di atomi che si staccano dalla superficie delle cose. Il flusso produce immagini simili alle cose che le hanno prodotte e noi percepiamo le immagini. Ma, a questo punto, Epicuro introduce un elemento di novità asserendo che dalle sensazioni derivano rappresentazioni fantastiche, ovvero combinazioni di immagini diverse, non sempre realistiche (ad esempio l'accostamento di uomo e cavallo che produce il centauro), emozioni (cioè il senso del piacere e del dolore) ed anche ricordi conservati nella memoria.
Questo mix di sensazioni semplici, rappresentazioni fantastiche, emozioni e ricordi forma l'insieme di concetti generali o idee, che per Epicuro hanno soprattutto la funzione di fornire anticipazioni sul futuro.

Per Epicuro la sensazione è dunque il criterio fondamentale della verità, e sembrerebbe così evidente che la partita con l'eleatismo veniva chiusa in modo del tutto materialistico e realistico. Anche i concetti, derivando dalle sensazioni e dalle emozioni, non possono portare ad errore. Dove piuttosto, secondo Epicuro, ci si può fatalmente sbagliare è sulle opinioni. Esse saranno vere solo se confermate dalla testimonianza dei sensi, il che porta ad un empirismo ed anche ad un primo abbozzo della teoria della verifica. Questo frutto era dolce ieri, è dolce oggi, lo sarà anche domani? Vedremo....Però, la mia esperienza mi porta ad anticipare e fare una previsione ragionevole... lo sarà anche domani.

Ovviamente, Epicuro ammise che col ragionamento si possono conoscere anche cose nascoste od inarrivabili alla sensazione stessa, ma saranno i suoi discepoli a sviluppare una teoria del ragionamento induttivo. Nello scritto di Filodemo Sui segni, scopriremo infatti che gli epicurei ammettevano l'inferenza per analogia, muovendo dall'esperienza e quindi dalla sensazione. Se tutti gli uomini che abbiamo conosciuto sono mortali, che bisogno c'è di un approfondimento ulteriore, come richiederanno gli stoici, ovvero la necessità di stabilire che gli uomini sono mortali in quanto uomini?

Sarebbe tutto ok, se, una volta compresa l'importanza di questo realismo fisico, non distante da un senso comune piuttosto diffuso anche negli ambienti più superstiziosi, qualcuno non si fosse però domandato su quali basi si dovesse fondare l'atomismo, cioè la teoria fisica fondamentale degli epicurei.
Lo sconcerto che può prendere è certamente giustificato, perchè l'atomismo non può ritenersi frutto di una sensazione, ma di un ragionamento sull'essere e il non essere, il pieno ed il vuoto, che non ha un immediato riscontro nella realtà, e che non poteva nemmeno essere verificato ai tempi di Epicuro. Qualcuno ha mai provato a prendere degli atomi con le mani e metterli assieme per vedere se si riesce a fare, non dico un uomo, od un cane, ma solo una ciotola o una pietra?
Obiezioni di questo tipo non dovevano essere infrequenti, anche se la storiografia filosofica non le riporta.
Tra la fisica epicurea e la logica epicurea stessa vi era quindi una grossa contraddizione, a meno che non venisse ammesso che la stessa teoria fisica fosse il risultato di una intuizione intellettuale e non di una somma di esperienze empiriche.

L'etica
Praticamente abbiamo già anticipato molto dell'etica epicurea nell'introduzione. Molti sostengono che essa derivi direttamente dalla scuola cirenaica, ed in particolare da Aristippo, allievo di Socrate. Cerchiamo il piacere ed evitiamo il dolore, questa è la lampada che illumina le nostre scelte.
Ma il vero piacere è quello stabile, ed esso è prodotto non già da sensazioni ed emozioni piacevoli, ma dal tenere lontana la sofferenza. Il vero piacere sta dunque nell'atarassia, ovvero l'imperturbabilità.
Dunque vi fu in realtà una punta polemica con i cirenaici, i quali sostennero piuttosto una dottrina del "cogli l'attimo" perchè ciò che conta è il presente.
Diversamente, Epicuro insegnò a distinguere tra bisogni naturali e superfluo. Anche tra i bisogni naturali egli distinse tra quelli realmente necessari e quelli no.
Solo alcuni bisogni naturali e necessari vanno soddisfatti per avere la felicità. Altri vanno soddisfatti per la salute del corpo.
I desideri non naturali vanno rimossi.
«Quando dunque diciamo che il piacere è il bene completo e perfetto, non ci riferiamo affatto ai piaceri dei dissoluti, come credono alcuni che non conoscono o non condividono o interpretano male la nostra dottrina; il piacere per noi è invece non avere dolore nel corpo né turbamento nell'anima.
Infatti non danno una vita felice né i banchetti né le feste continue, né il godersi fanciulli e donne, né il godere di una lauta mensa. La vita felice è invece il frutto del sobrio calcolo che indica le cause di ogni atto di scelta o di rifiuto, e che allontana quelle false opinioni dalle quali nascono grandissimi turbamenti dell'animo.
La prudenza è il massimo bene ed il principio di tutte queste cose. Per questo motivo la prudenza è anche più apprezzabile della filosofia stessa, e da essa vengono tutte le altre virtù. Essa insegna che non ci può essere vita felice se non è anche saggia, bella e giusta; e non v'è vita saggia, bella e giusta che non sia anche felice. Le virtù sono infatti connaturate ad una vita felice, e questa è inseparabile dalle virtù.
E adesso dimmi: pensi davvero che ci sia qualcuno migliore dell'uomo che ha opinioni corrette sugli dèi, che è pienamente padrone di sé riguardo alla morte, che sa sino in fondo che cosa sia il bene per l'uomo secondo la sua natura e sa con chiarezza che i beni che ci sono necessari sono pochi e possiamo ottenerli con facilità, e che i mali non sono senza limiti, ma brevi nel tempo oppure poco intensi? » (dalla lettera a Meneceo)
Tra i consigli della prudenza, Epicuro metteva anche quello di astenersi dalla vita politica, forse più nel senso di accantonare le ambizioni che nel senso di coltivare l'interesse per i problemi. Il precetto di "vivere nascosto" per essere felice e tranquillo fece comunque molta strada ed è parte integrante di una saggezza popolare mai tramontata.

La scuola epicurea e la sua eredità
La scuola aperta da Epicuro aveva sede in un giardino. Epicuro era molto venerato, quasi come un dio, e Seneca riporta un precetto considerato basilare nella scuola: "comportati sempre come se Epicuro ti vedesse."
Molta importanza avevano la vita in comune, l'amicizia, il dono di sé in squisita compagnia. Una delle massime epicuree più famose fu ripresa nientemeno che da San Paolo (non viene il dubbio che l'apostolo si sia confuso?) il quale la mise pari pari in bocca a Cristo. Diceva Epicuro:" E' non solo più bello ma anche più piacevole fare il bene che riceverlo."
Lo stesso Seneca colse un dato importante, ovvero che l'epicureismo godette di un certo successo solo finchè fu vivo il maestro. La forza d'attrazione era dovuta più alla personalità di Epicuro che all'oggettività della teoria. Tant'è vero che già nel I° secolo il Giardino venne chiuso.
Comunque sia, la scuola di Epicuro, sotto l'impulso del suo fondatore conobbe un certo successo.
Al giardino erano ammesse anche le donne, ed alcune divennero anche famose come Temista e l'etera Leonzia ( o Leontina) che pare abbia scritto un testo polemico contro Teofrasto, il successore di Aristotele alla guida del Liceo.
Filodemo, di cui abbiamo parlato, fu uno dei discepoli più produttivi, attivo a Roma ai tempi di Cicerone ed autore di testi quali RetoricaSui segniIl buon re secondo Omero, Sulla musicaSulla pietà.
Filodemo polemizzò con gli stoici ed anche con la scuola aristotelica. Lo scritto Retorica contiene una critica della retorica aristotelica, cui oppose il metodo induttivo ed analogico.
Ma fu il poeta Lucrezio l'epicureo più famoso del mondo antico e forse il vero tramite della trasmissione ai posteri delle dottrine del maestro. La sua opera De rerum natura, peraltro non ultimata, è forse uno dei classici più letti e considerati nella storia dell'umanità, e si mostrò particolarmente fedele alla dottrina originaria.
Lucrezio, descritto come temperamento passionale, si suicidò (più da stoico che da epicureo) a soli 44 anni.

Nel II° secolo d.C. apparve probabilmente l'ultimo degli epicurei antichi, Diogene di Enoanda in Asia Minore.
Comunque, bisognerà arrivare in epoca moderna, a Gassendi, perchè la filosofia epicurea ritorni in qualche modo agli onori della cronaca e della storia. Nel mondo antico, specie per l'avvento dello stoicismo e per il successivo imporsi di dottrine neoplatoniche, nuove religioni ed infine il cristianesimo, non ebbe molta fortuna e molti seguaci.


note:
1) Epicuro - Lettera a Meneceo
2) Pierre Hadot - Che cos'è la filosofia antica? - Einaudi
3) Epicuro - Lettere, massime sentenze -
4) J.J. Rousseau - Le fantasticherie del passeggiatore solitario - Quinta passeggiata - in Scritti Autobiografici - Einaudi

lunedì 1 novembre 2010

Sos neofaeddantes o sa fragilidade de sa limba


pubblicata da Xavier Frias



Unu de sos fenòmenos prus representativos de sos protzessos de recuperatzione e normalizatzione de sas limbas minores est s'aparitzione de sos neofaeddantes. Custu fenòmenu est interessante meda de analizare, ca si depent dare totu una sèrie de cunditziones pro chi si produat.

Ma, ite est unu neofaeddante? Est una pessona chi aprendet una limba de minoria pro motivos divessos (polìticos, culturales o pure ambos) chi est istada sa limba de comunicatzione normale in famìlia sua in generatziones anteriores. Sos neofaeddantes sunt una legione in sas limbas regionales ispanniolas, però sa situatzione prus interessante est de seguru sa de sos bascos. Sos neofaeddantes bascos sunt medas, non sunt faeddantes traditzionales de sa limba (cuddos faeddantes traditzionales sunt connotos cun su nùmene de paleofaeddantes), ca non l'ant rètzidu in domo, ma l'ant imparada, su cale est una cosa divessa meda. S'èsssere un neofaeddante non signìficat chi si faeddet male sa limba. In gènere sos neofaeddantes chircant a chistionare sa limba noa cun cura meda.

E in s'atòbiu de sos bascos, custu est importante meda ca su nùmaru de faeddantes de custa limba est crèschidu cunsiderabilmente gràtzias a issos. Ma, ite faeddant praticamente totu custos neofaeddantes bascos (e puru sos catalanos e galitzianos?). Faeddant sa limba istàndard. Iscrient sa limba istàndard. Faghent un'impreu normale de sa limba istàndard, chircant a usare sa limba istàndard comente si diat pòdere fàghere cun sa limba istatale.

Cudda limba basca aunida istàndard, cramada euskara batua no est sa limba de peruna bidda, ma leat unu modellu tzentrale inter sos dialetos otzidentales (bascu biscainu) e sos orientales-setentrionales (bascu de Iparralde e Navarra), pro custu subra de sa base de su bascu de Ghipùscoa ant creadu su bascu istàndard, ma no est pròpiu bascu ghipuscoanu.

Custu bascu istàndard depiat tènnere, in prus de sa forma iscrita, una pronùntzia de referimentu. E custu est importante meda ca, chena una pronùntzia de referimentu sa limba istàndard non si podet usare che limba faeddada, chena una pronuùtzia de referimentu non si podet ofrire sa limba istàndard a sos neofaeddantes. In carchi manera, bisòngiat èssere pretzisu meda subra de sa chistione de sa pronùntzia de referimentu, subra de unu cuntzetu chi podet bènnere pollèmicu in unu modu innetzessàriu. Sa pronùntzia de referimentu serbit, pro esempru, cando b'at bisòngiu de una pronùntzia de usare cando sa limba no est sa pròpia; o pure, cando bi cheret usare una pronùntzia de sa limba chi non siat dialetale. Forsis sa pronùntzia de referimentu podet bènnere sa pronùntzia istàndard, o nono, ma s'istandardizatzione de totu sas limbas de minoria non si faghet in sa forma iscrita ebbia (custu est su passu de unu), ma in sa pronùntzia puru. E custa est una chistione bene connota dae sos normativizadores de sas limbas de minoria ibèricas.

Duncas, creo chi sa chirca de una pronùntzia de referimentu pro su sardu istàndard siat assolutamente netzessària. Est berus chi in elementos medas, sas optziones podent èssere prus de una (p.es. pronuntziare cando /'kando/ o /'kandu/; o forte che /'forte/ o /'forti/), ma isco chi in àteros casos sa pronùntzia de referimentu s'at a adatare a sa forma iscrita, custu est normale in totu sas limbas.

Chi su sardu at a crèschere gràtzias a sos neofaeddantes, e isperamus chi eja, depet èssere prontu pro serbire che limba de comunicatzione normale. Sa presèntzia de sos neofaeddantes est unu sinnu bonu de recuperatzione, de salude de sa limba. Ma sa limba depet èssere preparada, e non solo pro sos neofaeddantes, ma pro totu sos faeddantes.

Tando, chie galu creet chi non b'at bisòngiu de unu sardu istàndard, tenet resone: sos sardos tenent s'italianu pro si fàghere cumprèndere inter sese. Però, est cuddu su futuru chi mèritat sa limba millenària de sa Sardigna?

martedì 21 settembre 2010

L’eco-quartiere e il “paese delle pale”: due esempi da imitare

Ancor oggi nelle città persiste l’ignoranza ecologica. Per fortuna esistono esempi positivi non unici al mondo, come in Abruzzo e in Germania

L’eco-quartiere e il “paese delle pale”: due esempi da imitare

Come ben sappiamo l’energia rinnovabile, il riciclo, il rispetto per l’ambiente sono il nostro futuro. Ma ancora oggi, purtroppo, nelle città – grandi e piccole – persiste la maleducazione dell’inquinamento, dello spreco e dell’ignoranza ecologica.

Per fermare il riscaldamento globale e la conseguente nostra autodistruzione bisogna attuare un cambiamento.

Quando si parla di cambiare si ha sempre un po’ paura. Ma ciò non significa modificare radicalmente le abitudini. Vuol dire solamente continuare a vivere normalmente, utilizzando però mezzi differenti, che rispettano il pianeta.

Esistono due iniziative concrete, che tutte le città del globo dovrebbero prendere a esempio.

In Italia, precisamente in Abruzzo, possiamo trovare un piccolo paese con una particolarità: è totalmente eco-sostenibile.
Castiglione Messer Marino
(in provincia di Chieti) è stato rinominato il “paese delle pale”, proprio per la particolarità delle sue sessantasette pale eoliche, che riforniscono l’intera zona di energia pulita. Non solo eolico, ma anche attenzione per la protezione del territorio e delle aree verdi.La stragrande maggioranza dei cittadini di Castiglione è convinta della scelta dell’eolico, soprattutto dopo aver constatato il reale risparmio energetico che ne hanno tratto. Risparmio e buona salute… per noi e per la nostra terra.

Come già detto, Castiglione, fortunatamente, non è l’unico esempio cittadino di rispetto dell’ambiente. A Vauban, eco-quartiere di Friburgo (Germania), i 5.000 abitanti vivono in simbiosi con la terra che li circonda.
Loro stessi sono “portatori sani “di iniziative volte a promuovere la salute del pianeta: uso esclusivo di energia solare, grazie ai pannelli impiantati sui tetti di tutte le case; in circolazione vi sono solamente 150 auto ogni mille persone (la media italiana è di 592); chi aderisce al car sharing, ovvero condivide il proprio mezzo con altre persone, usufruisce dell’abbonamento gratis al tram.

Esempi che dovrebbero far riflettere tutti noi e soprattutto le nostre amministrazioni comunali.

Si può e si deve cambiare.

Per poter ancora dire “futuro”.

martedì 3 agosto 2010

Stiglitz: "Fanno soldi sul disastro che loro hanno creato"

Il Nobel per l'Economia: paradosso assurdo,
colpa degli speculatori che prendono di mira i governi più deboli
STEFANO LEPRI
lastampa.it
ROMA
«E' un paradosso assurdo, da voi in Europa - si infervora Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia 2001 - una ironia della storia. Non lo vede? I governi hanno contratto molti debiti per salvare il sistema finanziario, le banche centrali tengono i tassi bassi per aiutarlo a riprendersi oltre che per favorire la ripresa. E la grande finanza che cosa fa? Usa i bassi tassi di interesse per speculare contro i governi indebitati. Riescono a far denaro sul disastro che loro stessi hanno creato».

Che può succedere ora?
«Aspetti. Non è finita qui. I governi varano misure di austerità per ridurre l’indebitamento. I mercati decidono che non sono sufficienti e speculano al ribasso sui loro titoli. Così i governi sono costretti a misure di austerità aggiuntive. La gente comune perde ancora di più, la grande finanza guadagna ancora di più. La morale della favola è: colpevoli premiati, innocenti puniti».

Come si può rimediare?
«Tre punti. Primo: niente denaro alla speculazione. Negli Stati Uniti come in Europa, bisogna fare nuove regole per le banche. Devono finanziare le imprese produttive, non gli hedge funds. Bisogna impedirgli di speculare».

Una parola. Se è il governo a dirigere il credito, il rischio è di distribuirlo ancora peggio.
«Non credo. Secondo me si può e si deve intervenire. Punto secondo: bisogna imporre tasse molto alte sui guadagni di capitale. Oggi è più vantaggioso speculare che lavorare per vivere. Deve tornare ad essere il contrario».

E poi?
«Punto terzo: in Europa dovete appoggiare i governi in difficoltà».

Si rischia di premiare i politici che governano male.
«No. La prova la dà la Spagna. Oggi è in difficoltà senza aver fatto errori. Il governo aveva un bilancio in attivo fino all’altr’anno; la Banca centrale ha sorvegliato le banche molto bene, tanto che viene citata ad esempio nel mondo. Che colpa hanno? Certo, anche loro hanno visto crescere la bolla, nel mercato immobiliare, e non l’hanno fermata. Ma è l’errore che hanno fatto tutti. Era nello spirito dei tempi. Lo ispirava l’ideologia neo-liberista che ha dominato per molti anni».

In Grecia però hanno sbagliato. Hanno anche truccato i conti.
«Non l’attuale governo, il precedente. Sono stati colpiti dalla crisi della navigazione commerciale, settore importante per loro, e dal calo del turismo. Insomma, perché dobbiamo costringere la gente a fare ancora più sacrifici, se non ha colpa?».

Il debito c’è. Prima o poi gli Stati dovranno ripagarlo.
«Ma perché mai dobbiamo dare retta ai mercati? I mercati non si comportano in maniera razionale, lo abbiamo visto nel modo in cui si è prodotta la crisi. Allora perché mai dovrebbero avere ragione, nel chiedere ancora più sacrifici ai cittadini di quei paesi? In più, anche se la avessero, si comportano in maniera troppo erratica. E per finire, qui è in corso un attacco speculativo: non è che se uno fa bene non lo colpiscono, è che se ti possono far fuori ti fanno fuori».

Come possiamo fare, in Europa?
«Dovete costruire dei meccanismi di solidarietà fra Stati. L’Unione deva avere più risorse a disposizione. Si spendono un sacco di soldi per la politica agricola comune, che è uno spreco, mentre...»

Si potrebbero emettere dei titoli europei, gli Eurobonds.
«Certo. E poi occorre tassare le attività nocive. Soprattutto due: la finanza e le emissioni di anidride carbonica. Anche negli Stati Uniti».

Obama riuscirà a imporsi alle banche?
«Sarà una lunga battaglia. Ma la rabbia della gente è forte, e il presidente lo sa. I banchieri hanno contro tutto il resto della popolazione».

Il Congresso è riluttante.
«Spero che non si debba arrivare ad un’altra crisi, prima di riuscire a mettere la finanza sotto controllo. Sarebbe davvero triste. Pensi a quanto danno hanno causato. Lo sa che secondo le rpevisioni del Cbo, l’Ufficio bilancio del Congresso, la disoccupazione comincerà a diminuire sono a metà del decennio? Queste sono cose che restano a lungo nella memoria della gente».

domenica 21 febbraio 2010

A rischio la principale fonte di cibo dei poveri: "Chiediamo all'Europa di non approvare il riso OGM della Bayer"



AUTORE: CBG Coordination gegen BAYER-Gefahren/Coalition against BAYER-Dangers


La Coalizione contro i pericoli derivanti dalla Bayer sollecita le Autorità Europee a rifiutare l'approvazione all'importazione del riso Liberty Link (LL62), prodotto da Bayer CropScience. Il riso LL62 è stato modificato con un gene che permette alle piante di resistere al glufosinato, un erbicida prodotto dalla Bayer con i marchi Basta e Liberty.

L'approvazione da parte dell'Europa all'importazione del riso geneticamente modificato, consentirebbe alla Bayer di promuoverne la coltivazione nei paesi in via di sviluppo. Questo potrebbe portare alla contaminazione dei tipi di riso coltivati nelle zone di origine, a una diminuzione della diversità e potrebbe addirittura mettere a rischio la principale fonte di cibo dei paesi poveri. L'impatto negativo ricadrebbe più pesantemente proprio sul settore più vulnerabile, quello dei poveri nelle aree rurali.


;">

Con il riso LL62, le dosi d'uso del glufosinato verrebbero aumentate aumentando così anche le possibilità che residui dell'erbicida rimangano nel riso. Secondo una valutazione dell'Autorità Europea per la sicurezza alimentare (EFSA), il glufosinato comporta un alto rischio per i mammiferi. La sostanza viene classificata come reprotossica. Il nuovo regolamento della UE mette al bando tutti i pesticidi CRM (cancerogeni, mutageni e reprotossici) delle categorie I e II. Il glufosinato è classificato tra i reprotossici di categoria II.

La Bayer ha fatto richiesta di poter importare il riso LL62, già nel 2003. La richiesta è stata respinta più volte dal Consiglio dei Ministri del Parlamento Europeo, ma non è ancora stata ritirata. La Bayer sta cercando di ottenere l'approvazione anche in Brasile, Sud Africa, India e Filippine. Fino ad oggi le approvazioni all'importazione in Europa sono state concesse principalmente per mangimi geneticamente modificati. Il riso Liberty Link sarebbe il primo prodotto OGM destinato al consumo umano diretto.

Philipp Mimkes della Coalizione contro i pericoli derivanti dalla Bayer (CBG), che da 30 anni sta monitorando la Bayer: “Chiediamo l'applicazione rigorosa del principio di precauzione nei confronti del riso geneticamente modificato, invitando a non approvare l'importazione nei paesi dell'Unione Europea del riso LL62 in quanto non ci sono prove sufficienti che tale riso non causi danni alla salute umana o all'ambiente”Vedere anche:




">Originale da: Staple food endangered: EU urged not to approve Bayer´s GM Rice

>Carlos Latuff

Articolo originale pubblicato il 1-2-2010

L’autore

La Coalizione contro i pericoli derivanti dalla Bayer è un partner di Tlaxcala, la rete internazionale di traduttori per la diversità linguística. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

URL di questo articolo su Tlaxcala:
http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=9984&lg=it