venerdì 30 agosto 2013

Maria di Magdala sposò o no Gesù, cioè il capo-banda Giovanni di Giuda il Galileo?

Maria di Magdala sposò o no Gesù, cioè il capo-banda Giovanni di Giuda il Galileo?



Favole, leggende manipolate e storia: come orizzontarsi? Per rispondere alla domanda su Maria di Magdala e Gesù che si pone ogni lettore del Codice da Vinci di Dan Brown, bisogna considerare altre due persone, Lazzaro e Menahem, coinvolte in questo matrimonio sia dai Testi Sacri che dai libri storici. Nei Vangeli si legge che Gesù era il maestro di una squadra formata da dodici discepoli, che Maria di Magdala era colei che a Betania gli aveva lavato i piedi e che Lazzaro era fratello di Maria di Magdala, nonché figlio di Giairo (v. miracolo della resurrezione: Mt. 9,18; Mc. 5,11; Lc. 8,4; Gv. 11).

Dai testi storici risulta che Gesù è stato costruito sulla figura di Giovanni di Gamala, figlio primogenito di Giuda il Galileo e capo di una banda di rivoluzionari ("Bohanerges"). Dalla Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio veniamo inoltre a sapere che Lazzaro, figlio di Giairo, era legato da vincoli di parentela con Menahem, figlio di Giuda il Galileo. Sarà da questa parentela di cui ci parla Giuseppe Flavio, che potremo, oltreché confermare l’esistenza del matrimonio, trarre anche un’ulteriore prova della non esistenza storica di Gesù. Infatti questa parentela risulterebbe incomprensibile se lo sposo fosse veramente figlio di Giuseppe, e non di Giuda il Galileo, come risulta dalle innumerevoli affermazioni che ci vengono dai testi storici.

Menahem e Lazzaro, quali fratelli dei due coniugi, l’uno dell’uomo e l’altro della donna, ci confermano con la loro parentela di cognati che il matrimonio esisteva e che lo sposo era il primogenito di Giuda il Galileo. Che Gesù, alias Giovanni di Gamala, fosse marito di Maria di Magdala ci viene ancora confermato da altri documenti che si riferiscono a quella banda dei Bohanerges, poi trasformata nei Vangeli in una squadra di discepoli predicatori di pace.

Dal "Vangelo di Filippo" ritrovato in Egitto nel 1945 durante ricerche archeologiche: "Maria, che era la consorte del Signore, andava sempre con lui. Il Signore amava Maria di Magdala più degli altri discepoli e spesso la baciava davanti a tutti sulla bocca". Nel papiro 8502 di Berlino, detto "Vangelo di Maria", si parla della gelosia e del risentimento che gli altri discepoli, e soprattutto Simone, provavano per la predilezione che il Signore riservava a Maria: "Ha forse il Signore parlato in segreto alla sua donna prima che a noi senza farlo apertamente? - è Simone, altro figlio di Giuda il Galileo, che parla - Ci dobbiamo umiliare tutti e sottoporci a lei? Forse egli l’ha anteposta a noi?"Dal vangelo copto viene riportata un’altra contestazione di Pietro contro Maria di Magdala: "Simone, detto Pietro, disse agli altri accoliti: "Maria deve andare via da noi perché le femmine non sono degne della vita". E il Signore, avendolo sentito, si rivolse a loro dicendo: "Ecco, io la guiderò da farne un maschio, affinché diventi una combattente come noi".

Soltanto il disprezzo che dimostra Simone verso le donne dicendo che non sono degne di vita, sarebbe già di per sé sufficiente per dimostrare che abbiamo davanti una banda di rivoltosi giudaici seguaci delle leggi Mosaiche nella forma più estremista.   A questo punto, penso che non sia troppo avventato supporre che tra i presenti a quella cena di Pasqua che precedette la rivolta, ci fosse anche lei, Maria di Magdala, quale moglie di Giovanni di Gamala e membro attivo combattente della banda dei Bohanerghes. Così scrivevo nel libro "Favola di Cristo", uscito nel 2002, quando ancora nessuno aveva scoperto che nell’Ultima cena di Leonardo da Vinci si nascondesse il volto di una donna in quello del discepolo Giovanni. Discepolo che, in realtà, non c’era, non poteva esserci, perché il vero apostolo amato da Gesù era Lazzaro.

sabato 24 agosto 2013

Gesù? Mai esistito. La sua vita copiata dal rivoltoso Giovanni di Gamala.

Il cristologo Cascioli: Gesù? Mai esistito. La sua vita copiata dal rivoltoso Giovanni di Gamala.

salon-voltaire
Luigi Cascioli


"La Storia ha insegnato quanto ci abbia giovato quella favola su Cristo" (Historia docuit quantum nos iuvasse illa de Christo fabula), avrebbe scritto papa Leone X in una lettera a Luigi, fratello del Cardinale Bembo. Una frase drammaticamente cinica, ma fondata, a quanto pare. Che cosa c’è dietro quest’incredibile ammissione, forse data per scontata da secoli tra gli altissimi “addetti ai lavori” della Chiesa, dell’assoluta mancanza di prove storiche della reale esistenza in vita di Gesù?
Ebbene, un cristologo davvero fuori del comune si è messo in testa di capire e di analizzare le Sacre Scritture solo in base alla logica, alla ragione, all'intelligenza. Ha studiato per decenni sulla scorta di tutti i documenti possibili e di una stringente razionalità quanto fosse vera quella cinica frase papale. Ed ha scoperto un vaso di Pandora: manomissioni di testi, sostituzioni di personaggi storici, pure e semplici invenzioni, e ogni altro genere di imbrogli che stanno dietro alla “creazione” del personaggio storico Gesù o Joshua, ebreo di Nazareth.
Quest’uomo è Luigi Cascioli, nato a Bagnoregio (Viterbo) nel 1934, bella figura di uomo onesto, idealista, laico, libero pensatore e anticlericale, scomparso ieri a Roccalvecce all’età di 76 anni. Il suo libro “La favola di Cristo”, bel dono che ci lascia in eredità, è l’unico che dimostra effettivamente, con centinaia di documenti, compresi i manoscritti di Kimberth Qumran (1947) e le cronache di storici come Giuseppe Flavio, Filone Alessandrino, Plinio il Vecchio e altri, che tale personaggio semplicemente non è mai esistito. Fu inventato a posteriori dai Padri di una Chiesa ormai dominante che non aveva più motivo per essere insieme rivoluzionaria e spiritualista, ma aveva bisogno di un mito più “terreno”, di un personaggio in carne ed ossa da dare in pasto ai fedeli, e anche d’un eroe “buonista” e non-violento.
Secondo la ricostruzione di Cascioli, si dovette, perciò, creare dal nulla un “Dio in Terra”, confezionando su misura una nascita plausibile – anche se miracolistica, avventurosa e troppo simile a quelle di tanti altri Dei-quasi-uomini dell'epoca – efficace pendant al “Dio nel cielo” che ormai aveva avuto successo. Pare infatti che prima di questa “creazione” biografica, Gesù fosse stato proposto come “disceso dal cielo all’età di 30 anni”. I sapienti cristiani provvidero, perciò a creare dal nulla, ma anche ad adattare, interpolare e falsificare documenti preesistenti.
Nell’affascinante e stringente ricostruzione di Luigi Cascioli si scopre così che la figura del Gesù "inventato" a posteriori, molti decenni dopo la data stabilita per la sua nascita (poi, guarda caso, fatta coincidere per assicurarsi il successo popolare con le festività dei Saturnalia e del Sole Invitto alla fine di dicembre, come il dio Mitra e tanti altri) coincide in modo impressionante con quella di un certo Giovanni di Gamala (villaggio della regione del Golan), figlio di Giuda il Galileo e nipote del rabbino Ezechia, a sua volta discendente della stirpe degli Asmonei fondata da Simone, figlio di Mattia il Maccabeo.
Quello che scandalizza fin dall’inizio è che si tratta non di un nazareno, cioè d’un abitante di Nazareth, come vorrebbe la Chiesa, ma di un “nazareo”, nel significato proprio del termine: un rivoluzionario, uno zelota. Dunque, un violento. I discepoli cercarono in seguito di far derivare l’appellativo da Nazareth – è l'accusa – per confondere le acque. Ma dai Vangeli si vede che Nazareth è in cima a un monte e vicina al Lago di Tiberiade, mentre la vera Nazareth è in collina e dista quaranta chilometri dal lago. Possibile che tanti Padri della Chiesa, tanti intellettuali cristiani, non se ne siano accorti? La città di Gamala, invece, corrisponde perfettamente alla descrizione evangelica, stranamente sfuggita alla censura lessicale e alla omologazione dei Vangeli ufficiali.
Dunque questo Giovanni di Gamala, alias Gesù – secondo la stringente ricostruzione di Cascioli – era un fanatico rivoluzionario capo-banda degli Zeloti, vicini agli Esseni (quelli dei rotoli di Qumram), setta di banditi rivoluzionari ebrei armati (oggi li definiremmo terroristi) che si opponevano all’occupazione dei Romani con ogni mezzo, uccidevano senza pietà anche donne e bambini. I cosiddetti discepoli erano in realtà i capi banda di tale movimento politico-militare. Lo scopo era evidentemente quello di cacciare i Romani e di instaurare un Regno di Israele con a capo un re del partito zelota, cioè il Giovanni di Gamala-Gesù. Non per caso ironicamente definito dai soldati romani nella famosa targhetta sulla croce (INRI) “Rex Judeorum”. In realtà, più correttamente, era un pretendente, un candidato al Regno.
Nonostante le censure di un passato così imbarazzante, altre tracce eloquenti sono restate per errore nei Vangeli. Come l’episodio dei “discepoli” armati di spade all’Orto dei Getsemani, così non-violenti che uno di loro taglia di netto un orecchio ad un soldato. Naturalmente, erano duramente osteggiati anche dagli Ebrei. Praticavano il battesimo (Giovanni Battista), la comunione dei beni e vivevano secondo riti monastici sotto la guida dei Nazir o Nazirei o Nazareni. Siamo nel periodo delle Guerre Giudaiche.
D’altra parte, tutto torna storicamente: il padre di Giovanni da Gamala-Gesù era Giuda il Galileo, personaggio realmente esistito citato dallo storico ebreo Giuseppe Flavio (che invece non cita Gesù), fondatore del movimento ribellistico zelota, ucciso durante una rivolta antiromana. E Giovanni-Gesù aveva, guarda caso, tre fratelli chiamati Giacomo, Simone e Kefas (ossia Pietro), come i principali apostoli. Giovanni di Gamala costituì con essi una banda armata in rivolta contro l'occupazione romana. Gli apostoli sarebbero stati in realtà dei guerriglieri, accoliti del movimento zelota e chiamati banda dei Boanerghes. Come se non bastasse, Giuda Iscariota deriverebbe il suo appellativo da sicario, mentre Simone zelota denuncerebbe l'appartenenza alla setta zelota. I soldati Romani davano loro la caccia, ma quelli affrontavano con gioia il patibolo o la croce nella certezza di avere come ricompensa dopo la morte una vita eterna di beatitudine, un po' come oggi i terroristi dell’Islam. Finché quel Giovanni-Gesù fu catturato nell'orto del Getsemani e crocifisso.
Lo storico ebreo Giuseppe Flavio ci ha dato nella “Guerra giudaica” una preziosa informazione sull’esistenza di un rivoluzionario carismatico la cui figura si attaglia perfettamente a quella di Gesù. E due vicende simili in così poco spazio di tempo sarebbero impossibili. Dunque, per Giuseppe Flavio si trattava d’un « falso profeta egiziano. Arrivò infatti nel paese un ciarlatano che, guadagnatasi la fama di profeta, raccolse una turba di circa trentamila individui che s’erano lasciati abbindolare da lui, li guidò dal deserto al monte detto degli ulivi e di lì si preparava a piombare in forze su Gerusalemme, a battere la guarnigione romana e a farsi signore del popolo con l’aiuto dei suoi seguaci in armi. Felice prevenne il suo attacco affrontandolo con i soldati romani, e tutto il popolo collaborò alla difesa sì che, avvenuto lo scontro, l’egizio riuscì a scampare con alcuni pochi, la maggior parte dei suoi seguaci furono catturati o uccisi mentre tutti gli altri si dispersero rintanandosi ognuno nel suo paese. » (II, 13, 5)
Molte rivolte e azioni violente i primi Cristiani le organizzarono anche a Roma, dove a detta degli storici romani erano considerati come terroristi e banditi rivoluzionari. Però, come capita a tutti i rivoluzionari, decenni dopo, una volta al potere, furono gli stessi capi della Chiesa che cancellarono ogni riferimento alle imbarazzanti origini rivoluzionarie e violente del loro movimento.
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"Dopo le prove fornite dalla “Favola di Cristo” sulla non esistenza di Gesù, come si può ancora credere che i racconti riportati sui Vangeli, pieni di contraddizioni e grossolanità, siano la biografia di un personaggio storico? Seguendo una fede cieca molti cristiani preferiscono mettere l'accento sul “simbolismo” contenuto nei testi. [E forse lo stesso papa Leone X sopra citato era tra questi. NdR]. Quindi, in teoria è possibilissimo – deduciamo noi – che siano esistiti addirittura papi e cardinali che sapevano della non esistenza storica di Gesù, ma hanno taciuto o per paura dello scandalo indicile (e del rischio di essere deposti come pazzi), o rifugiandosi del carattere analogico, simbolico delle Sacre Scritture. Come per le “verità scientifiche” dell’Antico Testamento (la Bibbia). Ma se tutto è simbolico – conclude Johannès Robyn, presidente dell'Unione degli Atei di Francia – che cosa resta del personaggio?" Di un personaggio-Dio, aggiungiamo, dal cui nome deriva la parola e la fortuna del Cristianesimo.
Complemento efficace al lavoro di Cascioli è la minuziosa e filologica ricostruzione
 storica di Marco Guido Corsini, secondo il quale sarebbe fondata l'origine egiziana del capopopolo sedicente Messia. Il suo sito offre per certi punti una ricostruzione di Gesù come rivoluzionario ebreo “egiziano”. Gli indizi e le concordanze coi documenti storici sono affascinanti, così come inquietanti i tentativi della prima Chiesa di cancellarli, a partire dai Vangeli.
La Chiesa cattolica, in risposta, appare molto meno scandalizzata di quanto noi laici potremmo immaginare. Un tempo avrebbe mandato a morte l’incredulo. Oggi semplicemente obietta che neanche su Giovanni di Gamala, ci sono sicure fonti storiche, e che quindi contrapposta alla "favola di Cristo" c'è solo la "favola di Cascioli".
In quanto al libro “La favola di Cristo”, si può aggiungere che è molto avvincente, strutturato come un "giallo" storico "scientifico", e si rivela una miniera di impressionanti notizie concatenate tra loro. Un vero puzzle nel quale i vari tasselli vanno a incastrarsi in modo apparentemente perfetto. Se ne consiglia la lettura. Può essere acquistato presso la famiglia dell’autore, insieme agli altri suoi libri.
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Il giorno dopo la scomparsa di Luigi Cascioli, riteniamo che questo ricordo possa essere l’omaggio più giusto a lui dovuto. Fu un grande uomo. Grazie alla sua tenacia, al rigore razionale, e all’erudizione di questo studioso coraggioso, profondo conoscitore dei testi dei Vangeli e della Bibbia, che proprio lui ha dimostrato essere stata scritta in tempi molto più recenti di quanto racconta la leggenda. A lui va il nostro ricordo e la nostra ammirazione.
Sui rapporti tra Maria di Magdala e Giovanni, il capo-banda zelota (oggi diremmo fondamentalista e rivoluzionario ebreo, seguace della più stretta legge mosaica) su cui la Chiesa modellò secoli dopo la vita del personaggio inventato Joshua, alias Gesù, SalonVoltaire ha ospitato un interessante articolo di Luigi Cascioli.
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.IN MEMORIA DI LUIGI CASCIOLI
di Peter Boom
Luigi Cascioli, nato il 16 febbraio 1934 a Bagnoregio (VT) è deceduto ieri nella sua casa di Roccalvecce (VT), e con lui abbiamo perso un appassionato ed erudito storico, specializzato soprattutto nel primo periodo cristiano.
Aveva scritto e pubblicato tre libri "La favola di Cristo" (inconfutabile dimostrazione della non esistenza di Gesù), "La morte di Cristo" e "La statua nel viale", dei quali sono stati stampati versioni in diverse lingue.
Attraverso approfonditi studi aveva dimostrato che Cristo non era mai esistito ed aveva a proposito denunciato la Chiesa Cattolica, nella persona di Don Enrico Righi, parroco-rettore della ex.Diocesi di Bagnoregio per abuso della credulità popolare (Art. 661 C.P.) e per sostituzione di persona (Art. 494 C.P.).
Ateo convinto, Luigi Cascioli (http://www.luigicascioli.eu) aveva voluto attaccare il cristianesimo con questa denuncia contro la Chiesa Cattolica, sostenitrice di un'impostura costruita su falsi documenti, quali la Bibbia ed i Vangeli, che aveva imposto con la violenza dell'inquisizione e con il plagio ottenuto con l'esorcismo, il satanismo ed altre superstizioni. Ultimamente Luigi Cascioli stava preparando un nuovo libro riguardante Fatima, da lui denominato altro grande imbroglio superstizioso-finanziario.
Luigi Cascioli, un uomo coraggioso, fino all'ultimo sulla breccia per divulgare le Sue idee, le Sue tesi storiche, delle quali si parlerà ancora a lungo.
Il Libero Pensiero vola ben oltre la morte terrena e questa consapevolezza ci dà la forza di esporre sempre con grande apertura mentale e la massima onestà le nostre idee. Non abbiamo dogmi e sappiamo tutti di poter sbagliare, ma siamo ben convinti che non si possa imbrigliare il nostro pensiero. Di questo fu grande testimone il filosofo Giordano Bruno, immolato dopo atroci torture sul rogo dall'Inquisizione cattolica. Oggi il rogo o la pena di morte, almeno nei paesi di civiltà occidentale non esiste quasi più, ma altri metodi perniciosi per bloccare il Libero Pensiero persistono, bloccando l'informazione su certe idee, frutto di lunghi studi, come quella di Luigi Cascioli sulla non esistenza di Gesù. 

lunedì 19 agosto 2013

La lezione arriva dell'Ecuador un fiume può fermare gli speculatori

...non possiamo che condividere il punto di vista di un paese come l'Ecuador che da costituzionalmente diritto di inviolabilità a "Gaia" la terra su cui viviamo e siamo ospiti


Sa Defenza



La lezione arriva dell'Ecuador
un fiume può fermare gli speculatori

Mari Margil, avvocato e attivista ambientalista statunitense, spiega come ha aiutato lo stato latinoamericano a introdurre nella Costituzione i "diritti della Madre Terra"

Il Vilcabamba, in Ecuador, è stato il primo fiume a vincere
da parte civile una causa in tribunale 


di VALERIO GUALERZIrepubblica.it/


- A quasi settant'anni dalla dichiarazione universale dei diritti dell'uomo è giunto il momento di pensare di estendere le tutele anche a tutto ciò che rende possibile la vita degli uomini: la natura. Un primo importante passo lungo questa strada è stato compiuto dall'Ecuador che nel 2008, con un referendum, ha votato l'inserimento nella Costituzione di cinque articoli per i diritti della Madre Terra. 

Questo caso pilota, di cui in Italia si è parlato ancora molto poco, sarà al  centro di un convegno, "I diritti della Natura" organizzato venerdì 30 marzo ad Alzano Lombardo da Inntea e ideato dallo scrittore Davide Sapienza insieme a Mari Margil e Francesca Mancini. Sapienza è il fondatore del gruppo Diritti della Natura Italia e in maggio verrà lanciata l'edizione italiana del libro di Cormac Cullinan, "I Diritti della Natura: WIld Law" (Piano B Ed).  

Al convegno parteciperà anche Mari Margil, avvocato statunintense che ha assistito la battaglia giuridica degli ambientalisti ecuadoregni. Alla vigilia del suo arrivo in Italia, la signora Margil ha accettato di rispondere ad alcune di Repubblica.

Cosa vuol dire
 inserire in Costituzione i diritti della natura?

"Significa che la legge riconosce, ritenendoli vincolanti e da far rispettare, i diritti degli ecosistemi e delle comunità naturali. Questi diritti comprendono il diritto ad esistere, a rigenerarsi e ad evolvere. Così, se un attività (mineraria, estrattiva o simile) dovesse interferire con la capacità di un ecosistema (un fiume, un foresta o altro ancora) a continuare ad esistere e a rimanere in salute, allora quell'attività violerebbe le leggi e non potrebbe essere consentita".

E il suo coinvolgimento come nasce?  
"La fondazione Pachamama di Quito è venuta a conoscenza del lavoro che stavamo facendo negli Stati Uniti e ci ha chiesto di andare in Ecuador per incontrare i membri dell'Assemblea costituente. Abbiamo incontrato anche il presidente dell'Assemblea Alberto Acosta, che nel frattempo era diventato un forte sostenitore dei diritti della natura. Così ci è stato chiesto di stilare una bozza che l'Assemblea ha poi fatto propria, ampliandola. Il nuovo testo è stato infine ratificato da un referendum nazionale nel 2008".  

A fronte delle crescenti pressioni economiche sull'ambiente, non c'è il rischio che rimangano dichiarazioni di intenti inapplicabili?
"Nel 2011 in Ecuador ci sono state le prime cause intentate in base alla nuova norma costituzionale. In uno di questi casi, il fiume Vilcabamba si è potuto costituire parte civile per difendere la sua possibilità di prosperare dalla minaccia della cementificazione. Alla fine il fiume ha vinto la causa. Una vittoria storica, la prima riportata direttamente da un fiume in un'aula di tribunale".  

Non è però certo il primo caso di speculazione bloccato con motivazioni ambientali.
"E' un caso diverso. Le leggi di salvaguardia ambientale esistenti nel resto del mondo continuano a trattare la natura come una proprietà, priva di diritti propri. Così, se l'attività umana minaccia la capacità di un ecosistema di esistere e rimanere in salute, non c'è un diritto specifico da poter difendere. Queste leggi ambientali tradizionali, basate sul concetto di proprietà, legalizzano, tollerandola, una certa quantità di minaccia all'ambiente. Detto altrimenti accettano, regolamentandola, la possibilità che un ecosistema possa essere usato o sfruttato. Ora le cose cambiano, e la natura cessa di essere considerata una proprietà, diventando un portatore di diritti autonomi.  Grazie a leggi scritte per dare la possibilità alla gente e alle comunità di far rispettare questi diritti per conto degli ecosistemi".

Si fa fatica a far rispettare diritti riconosciuti e formalmente accettati da molto più tempo, siete sicuri che i tempi siano maturi per quelli degli ecosistemi?
"C'è un movimento in corso comunità per comunità, paese per paese. Naturalmente i tempi saranno lunghi, proprio come è accaduto per il riconoscimento dei diritti delle donne, dei bambini, dei lavoratori. Sono necessari cambiamenti radicali non solo nelle leggi, ma anche nella cultura. In giro per il mondo c'è però una crescente consapevolezza, sia tra la gente che tra i governanti, del fallimento delle leggi tradizionali a tutela dell'ambiente. Una consapevolezza della necessità di cambiare il nostro rapporto con la natura che cresce di pari passo con il degrado del Pianeta".

martedì 30 luglio 2013

Si può prevedere il futuro?

Si può prevedere il futuro? 

Pubblicato da 
 studieriflessioni

Questo è il titolo di uno studio pubblicato su "Le Scienze" di giugno 2013. Già in copertina troviamo i seguenti titoli: "Dossier- La scienza delle previsioni- Dall'economia ai terremoti, dagli uragani alle epidemie, prospettive e limiti delle nostre capacità di prevedere scenari futuri". [Errata corrige: il dossier è intitolato "La scienza delle previsioni", mentre è il primo studio del dossier a essere intitolato "Si può prevedere il futuro?". Nella fretta e nella selva dei titoli e sottotitoli l'autore di questo blog si è un pò perso. Ed è un vero peccato perché così si è perso anche quello che poteva essere un efficace controtitolo ad effetto per questo post e cioè L'impossibile scienza delle previsioni].

A dire il vero, la difficoltà reale consiste nella previsione deterministica di eventi singoli in momenti precisi e determinabili, non tanto la previsione statistica di eventi complessivi in momenti imprecisabili. Chi segue questo blog sa che l'autore attribuisce i singoli eventi alla sfera del caso e gli eventi complessivi (collettivi) alla sfera della necessità: i primi soggetti allaincerta probabilità, i secondi soggetti alla certa frequenza statistica.

Ora, ciò che possiamo trovare in questo dossier di "Le Scienze" è una prima ammissione della differenza tra le previsioni impossibili dei fenomeni singoli e le previsioni possibili dei fenomeni collettivi. Da questa ammissione, naturalmente, non si può certo inferire che gli autori del dossier abbiano concepito o siano sul punto di concepire la dialettica caso-necessità. Ma, come vedremo, i cosiddetti pratici, ossia gli scienziati che si occupano di quei campi ai quali sono richieste risposte scientifiche pratiche, risolutive dei problemi umani, hanno maggiori possibilità di comprendere le leggi della dialettica caso-necessità, rispetto ai teorici puri della matematica o della fisica teorica.


Per mostrare in che modo questo possa avvenire, ma anche quali ostacoli teorici del passato e del presente continuino a rendere difficile la totaleconsapevolezza della dialettica caso-necessità, posteremo alcuni contributi critici su questo dossier, cominciando dalla previsione delle malattie. Sub "Prevedere le malattie" di Paolo Vineis, possiamo subito osservare che il sottotitolo imposta la questione in modo abbastanza corretto:"Prevedere in modo affidabile l'insorgere di alcune malattie è possibile ma a livello di popolazione, a livello individuale questo non è sempre possibile".

L'osservazione di cui sopra è una tipica induzione empirica che, per chi scrive, rappresenta una conferma del caso relativo ai singoli individui e della conseguente necessità complessiva. Anche all'inizio dell'articolo Vineis ribadisce: "Il problema di fondo dell'epidemiologia, cioè dello studio sistematico delle distribuzioni della malattie e delle loro cause, è che le previsioni sono valide (quando lo sono) soprattutto a livello collettivo, ma difficilmente a livello individuale. Le malattie non rispondono a leggi semplici e deterministiche, ma hanno un ruolo decisivo la suscettibilità individuale e altri fattori aleatori. A livello delle popolazioni, però, la previsione è ragionevolmente affidabile, almeno per fenomeni stabili come le malattie "non comunicabili", tra cui il cancro, su cui si basano molti degli esempi che seguono".

Occorre chiarire subito che la malattia, in se stessa, riguarda strettamente l'individuo e ovviamente la sua "suscettibilità" alla medesima, ma la scienza non è in grado di definire in altro modo la malattia individuale che appellandosi a "fattori aleatori", ovvero imprevedibili. La conclusione da trarre è, quindi, che l'imprevedibilità deriva dal caso. E qui troviamo una prima reticenza sul riconoscimento del ruolo del caso individuale e sul suo rapporto con la necessità collettiva. E' l'ossimoro "fattori aleatori" che conferma la reticenza degli scienziati posti di fronte a evidenze empiriche aleatorie, ossia casuali. Infatti, se fosse un fattore dovrebbe essere sotto la giurisdizione del rapporto deterministico di causa-effetto, se invece è qualcosa di aleatorio, allora appartiene alla sfera del casoconnessa alla necessità solo come opposto dialettico.

Chiunque abbia acquistato "Le scienze" di questo giugno può partire dal contributo di Paolo Vineis, per comprendere le ragioni oggettive della imprevedibilità di eventi singoli, individuali: imprevedibilità che non dipende dalla inettitudine degli scienziati empirici, ma dalle oggettive manifestazioni naturali. In questo modo potrà anche seguire la critica dell'autore di questo blog, mediante la quale sarà resa ancora più chiara la sua "dialettica caso-necessità" che sta alla base dei processi naturali. 

Riprendiamo il discorso partendo dall'articolo introduttivo scritto da Fabio Cecconi, Massimo Cencini e Francesco Sylos Labini. Il punto di partenza del dossier, sulla previsione del futuro, è rappresentato dalle seguenti domande: "In che modo sono declinati i metodi e i concetti usati per capire come si svilupperà un certo fenomeno in diversi contesti scientifici, quali meteorologia, fisica, geologia ed epidemologia? In che modo le conoscenze scientifiche si traducono in previsioni utili alle politiche di intervento? Quali sono i limiti di queste previsioni?" E' proprio per rispondere a queste domande che è stato organizzato un convegno, dal quale sono stati tratti i vari contributi per il dossier pubblicato su "Le Scienze".

Fin dall'inizio ciò che non appare chiara è la consapevolezza che le previsioni per essere "utili alle politiche di intervento" devono riguardare singoli eventi, che sono, invece, sotto la giurisdizione del caso. Al posto di questa premessa certa, che non viene mai affermata una volta per tutte, compare ogni tanto la considerazione dell'aleatorietà o stocasticità che rende imprevedibile il futuro, ma compare soprattutto il continuo appello alla incertezza, alla caoticità, ecc. della previsione.


E quando, finalmente, si affronta la questione vera, quella del determinismo che si scontra con la probabilità, ci si appella a situazioni di impossibilità che sarebbero specifiche dei fenomeni considerati. Ad esempio, riguardo ai terremoti, essi dipenderebbero "da condizioni di stress che si verificano fino a chilometri sotto la crosta terrestre, inaccessibili a misurazioni sistemiche". Ma, sui terremoti la conoscenza e anche il monitoraggio sono vasti. Ciò che, invece, risulta impossibile è rendere ragione di quella manciata di secondi o minuti di stress che mettono sottosopra una regione abitata, prendendola di sorpresa creando morti, feriti e panico.

Ed è per queste situazioni che, invece di chiarire il rapporto esistente tra il  singolo casuale e il complesso necessario, si continua a pretendere di rispondere a domande come la seguente: "Una domanda più complessa riguarda la capacità di prevedere fenomeni regolati non da leggi deterministiche, ma piuttosto da leggi probabilistiche. In questo caso un ruolo importante è svolto dalle tecniche di previsioni statistica, correntemente usate per prevedere, per esempio, il diffondersi di malattie epidemiche, la formazione di opinioni nella società o il suo sviluppo economico".

Ma la statistica, ribadiamo, è una forma di conoscenza applicata ai complessi, alle collettività; tutto l'opposto, ad esempio, della previsione della singola scossa tellurica, che non è soggetta alla statistica complessiva ma alla probabilità singola. E quanto si sia ancora lontani dall'avere compreso la differenza tra probabilitàfrequenza statistica e determinazione di causa-effetto lo conferma la seguente osservazione degli autori di questa introduzione (che ribadisce anche il solito errore): "L'analisi di serie storiche e l'inferenza statistica basata sul calcolo delle probabilità sono i due strumenti principali di questo tipo di tecniche predittive, che però da sole non bastano. Gli studi statistici sono molto efficaci nello stabilire correlazioni tra eventi ma, nella maggior parte dei casi non permettono la determinazione di relazioni causali, conoscenza indispensabile per la politica di intervento".

Relazioni causali?! C'è da mettersi le mani nei capelli! In questo genere di spiegazioni non si rende ragione della reale difficoltà della previsione. Innanzi tutto, perché non si chiarisce subito che la previsione riguarda eventi singoli che appartengono alla sfera del caso e dunque al calcolo delle probabilità, il quale stabilisce soltanto possibilità e nessuna certezza? E ancora, perché ci si dimentica di assicurare che il calcolo statistico parte sì dalle probabilità ma giunge sempre a dati di frequenze che riguardano complessi, collettività di eventi? Infine, perché si compie l'errore madornale di cercare relazione tra inesistenti cause e il quadro statistico rilevato? Dove c'è una statistica non ci può essere una causa: tra il rapporto probabilità-statistica e il rapporto causa-effetto c'è una differenza abissale!

La conseguenza paradossale è che gli autori, dopo aver confermato come proprio un simile errore di teoria della conoscenza, giungano alla seguente falsa conclusione: "Dalla nostra discussione emerge che anche un insieme ben consolidato di conoscenze scientifiche inevitabilmente non si traduce in previsioni prive di incertezza, nella migliore delle ipotesi per i limiti di natura intrinseca ai fenomeni di interesse. Questi limiti non sono sempre compresi o correttamente trasmessi a chi deve tramutare le previsioni in decisioni o protocolli di sicurezza per le popolazioni".

C'è forse bisogno di insistere su questo paradosso che conferma la più colossale delle incomprensioni? La più precisa e perfetta delle conoscenze dei processi naturali è la conoscenza della necessità dei complessi di eventi, mentre i singoli eventi sono inconoscibili e imprevedibili perché soggetti al caso. Se questa verità certa viene taciuta ai pratici, che dovrebbero stabilire protocolli di sicurezza applicabili a collettività di cittadini (per non creare panico e non disturbare inutilmente le loro abitudini), come si può pretendere che non sorgano incomprensioni?

Il fatto è che si preferisce la solita bagarre, il solito rinfaccio reciproco piuttosto che affermare una verità che toglie fondamento a un principio tanto caro non solo alla scienza più tradizionale ma anche ai poteri d'ogni tempo, etici, religiosi e politici: il determinismo. Quel determinismo che se l'attività pratica dell'uomo, la produzione tecnologica, conferma pienamente, quando viene applicato ai processi naturali delude ogni aspettativa umana!*

* A questo proposito, vedere i post sulla critica alla riproposizione del determinismo da parte di Paola Dessì.



lunedì 22 luglio 2013

L'origine della nuova teoria della conoscenza fondata sulla dialettica caso-necessità

"L'arte di operare con dei concetti non è innata e neppure acquisita con la coscienza comune di tutti i giorni, ma richiede invece un pensiero reale e questo pensiero ha una lunga storia sperimentale, né più né meno dell'indagine naturalistica sperimentale. Appunto imparando a far propri i risultati dello sviluppo della filosofia durante venticinque secoli, essa si libererà da un lato da ogni filosofia della natura che stia a parte e al di fuori e al di sopra di essa, ma anche, d'altro lato, dal suo proprio metodo limitato di pensare, ereditato dall'empirismo inglese" (F. Engels, seconda prefazione all' Anti-Dühring).

L'origine della nuova teoria della conoscenza fondata sulla dialettica caso-necessità

Pietro De Michelis
studieriflessioni



Vicende personali imprevedibili e contingenti orientarono l'interesse dell'autore di questo blog nella direzione del rapporto caso-necessità fin dal 1983, ma inizialmente senza risultati degni di nota. Anche l'approfondimento della "Dialettica della natura", nella quale Engels aveva posto il problema del rovesciamento del caso nella necessità, se era riuscito a indicare una strada, non mostrava però né l'ingresso né alcuna via d'uscita. Finché, in una calda giornata estiva del 1985, un'improvvisa intuizione: i singoli elementi di un complesso vanno posti nella sfera del caso, mentre i complessiappartengono alla sfera della necessità. In sostanza, i singoli elementi di un complesso, in quanto tali, sono sempre soggetti al caso, caso che si rovescia nel suo opposto dialettico: la necessità del complesso stesso. 
L'intuizione fu il risultato di un confronto tra due esempi empirici: il traffico su strada dell'epoca contemporanea (suggerito dall'esodo estivo) e le battaglie della prima guerra mondiale (suggerite da letture storiche di quel periodo). Nel primo esempio, il singolo incidente mortale può essere concepito come effettivamente casuale, mentre se consideriamo il complesso del traffico automobilistico, troviamo frequenze statistiche effettivamente necessarie, perché rendono conto della regolarità e della costanza degli incidenti mortali nel loro insieme.

Nel secondo esempio, le lunghe battaglie della durata di mesi evidenziavano una statistica di elevata mortalità complessiva, all'incirca di frequenza 1/2. Quindi la cieca necessità era facilmente riconoscibile come statistica complessiva, sebbene il singolo fante fosse abbandonato ai capricci del caso secondo la probabilità 1/2. Insomma, la probabilità in se stessa non garantisce nulla all'individuo, e la sorte del singolo rimane imprevedibile, mentre la frequenza stabilisce la certezza del risultato. Nel nostro esempio, facile stabilire che su un milione di fanti, cinquecentomila sarebbero morti, ma impossibile stabilire a chi sarebbe toccato morire.

A questa prima intuizione che collegava il caso con il singolo e con la probabilità, e la necessità con il complesso e la frequenza, ne seguì un'altra: i grandi numeri delle singole possibilità casuali si rovesciano nella realtà necessaria che rappresenta l'oggetto complessivo, l'unico accessibile alla reale conoscenza. Ne derivarono come conseguenza due serie di concetti tra loro omogenei: la prima serie appartenente alla sfera del caso, la seconda appartenente alla sfera della necessità:

I) caso, singolo, probabilità, possibilità
II) necessità, complesso, frequenza, realtà.

Ecco dunque come il caso si rovescia in necessità: può farlo perché esistono altre polarità dialettiche che, per così dire, glielo permettono. Allora è il caso relativo ai numerosi singoli elementi, soggetti alla probabilità, che si rovescia nella necessità del complesso, soggetto alla frequenza statistica. E in tal senso possiamo essere certi del passaggio dalla possibilità alla realtà. Questa, in sostanza, fu l'intuizione di una calda giornata d'estate, intuizione che avrebbe potuto essere messa alla prova, in tempi relativamente brevi, in economia e soprattutto nella storia politica e militare, discipline nelle quali l'autore aveva una certa dimestichezza.

Ma un'ultima intuizione, quella di trovarsi di fronte a una difficile questione di teoria della conoscenza, appartenente alla storia del pensiero umano, per qualche motivo trascurata, messa da parte e perciò mai risolta, suggerì di prendere un'altra strada molto più lunga e faticosa: cercare nella teoria della conoscenza, a partire dall'antico pensiero greco, se e in quale misura la questione del rapporto caso-necessità si fosse presentata e quali risposte avesse avute, se le avesse avute. Un'analoga ricerca era inoltre necessaria nelle scienze naturali, almeno a partire da Galileo per la fisica e da Darwin per la biologia.

Limitandoci sobriamente ai fatti: otto furono gli anni (1985-1992) necessari per porre le basi di un progetto di approfondimento decennale (1993-2002) che terminò con la stesura di tre volumi (teoria della conoscenza, fisica, biologia). Nel primo periodo, l'autore pazientemente studiò per apprendere i linguaggi specifici, gli argomenti e le difficili questioni (ma anche le più diverse banalità e assurdità) della storia della filosofia e delle scienze naturali. Poi, con uno sforzo raddoppiato, dopo altri quattro anni di studio, nel 1996, erano già pronte le tesi generali che riassumevano la logica dialettica caso-necessità, sviluppata nella teoria della conoscenza riguardo alla evoluzione della materia nel cosmo e alla evoluzione della vita terrestre, fino all'origine dell'uomo e della coscienza.

Queste tesi servirono sia a fare il punto dei risultati raggiunti, sia per tracciare gli ulteriori approfondimenti per i sei anni successivi (1997-2002), anni in cui molte sono state le difficili questioni risolte e molti i punti fermi stabiliti nei tre volumi, dai quali è tratta una parte degli scritti di questo blog.

Poiché gli approfondimenti successivi non hanno scalfito le considerazioni generali esposte nelle tesi del 1996, le quali perciò restano tuttora valide, l'autore ritiene sia giunto il momento di pubblicarle nel suo blog: blog che ha già fatto la sua parte con decine di scritti che permettono di farsi un'idea sull'importanza della nuova teoria della conoscenza fondata sulla dialettica caso-necessità.

Tesi di teoria della conoscenza sulla evoluzione della materia 

I] Punto di partenza della teoria della conoscenza: la determinazione del reale rapporto caso-necessità. I processi e i fenomeni della natura appaiono a prima vista un groviglio inestricabile di caso e necessità. Il pensiero umano può districare questo apparente groviglio naturale mediante il pensiero dialettico: i concetti di caso e necessità vanno perciò concepiti come opposti polari che si manifestano l'uno mediante l'altro (determinazione reciproca e rovesciamento nell'opposto).

II] Come si esprime la dialettica caso-necessità in natura, e come può essere riflessa nel pensiero? Ogni forma  materiale inorganica e organica può sorgere soltanto in un processo di sviluppo, nel quale essa rappresenta un dato stadio o momento. Il raggiungimento di questo momento non è altro che il risultato da nessuno voluto del rapporto polare tra il caso relativo ai singoli numerosi oggetti o eventi e la necessità relativa al complesso specifico di questi numerosi oggetti o eventi. La casualità dei numerosi elementi che partecipano a un fenomeno o a un processo naturale si rovescia nella necessità del risultato complessivo, sia esso un atomo, una molecola, un corpo, ecc.; sia esso una cellula, un tessuto, un organismo, ecc.

III] Ciò che a un dato livello è solo uno dei numerosi elementi di un complesso, a un livello inferiore è, a sua volta, un complesso di numerosi elementi. E viceversa: ciò che a un dato livello è un complesso di numerosi elementi, al livello superiore è solo uno dei numerosi elementi di un complesso. Il tutto, quindi, si risolve in una serie di contenitori di contenitori, ovvero di contenitori a loro volta contenuti.


IV] Il riflesso scientifico dell'oggettiva dialettica naturale caso-necessità è dato dal rapporto dialettico probabilità-statistica. Il calcolo delle probabilità ha per oggetto l'ampiezza della casualità relativa ai numerosi singoli elementi di un dato complesso; e la statistica, intesa come necessità relativa al complesso, va considerata non solo nelle sue frequenze medie, ma soprattutto nelle sue frequenze eccezionali, in quanto le rarità, le eccezioni statistiche hanno un'importanza fondamentale nella evoluzione della materia.

V] L'idea di fondo che attribuisce al rapporto dialettico probabilità­-statistica il significato di strumento d'indagine principale, per la riflessione dei fenomeni e processi naturali, è la seguente: in natura si tratta di oggetti o eventi molto numerosi e, singolarmente presi, affatto casuali, il cui complesso di appartenenza appare qualitativamente differente, ossia appare come necessità del risultato relativamente costante e duraturo, soltanto però in senso statistico, e principalmente in forma di rarità statistica. Per spiegarci con un esempio: il linfocita B è una cellula e, come tale, nasce, si nutre, si riproduce e muore, seguendo un suo ciclo di sviluppo soggetto al caso; ma 10^12 linfociti B nel loro casuale movimento entro l'organismo umano e nella loro casuale diversa individualità, si rovesciano complessivamente nella necessità cieca e da nessuno voluta o predeterminata della risposta immunitaria. Così, osserviamo sperimentalmente che è l'eccezione statistica (un linfocita su circa un milione) che ogni volta garantisce la difesa immunitaria dell'organismo. I grandi numeri di linfociti rappresentano perciò soltanto il serbatoio casuale della necessità statistica, che si manifesta come eccezione, come rarità.

VI] Questa regola vale in generale, sia per la materia organica che per la materia inorganica. Il rapporto dialettico caso-necessità, che il rapporto dialettico probabilità-statistica riflette, mostra la seguente fondamentale peculiarità della natura: che, sulla base dei grandi numeri casuali, la rarità o eccezione - sorta casualmente dal serbatoio dei grandi numeri - si rovescia in necessità, sia che si manifesti nella formazione degli elementi e dei corpi della fisica sia che si manifesti nella formazione delle cellule e degli organismi della biologia.

VII] Tutto ciò richiede e presuppone un enorme dispendio. Il dispendio rappresenta il principale contrassegno della natura, il prodotto più grandioso del movimento della materia: prima ancora di produrre il protone e l'elettrone, il movimento caotico della materia primordiale produce un enorme dispendio di energia (termica). Il dispendio è la condizione basilare, la circostanza principale della evoluzione delle forme materiali, che rappresentano, viceversa, delle rarità, delle eccezioni.

Definiamo perciò legge del dispendio e dell'eccezione statistica la cieca necessità prodotta dal caso, tipica di ogni prodotto naturale. Sulla base di un grande dispendio, sorgono per necessità statistica rarità, eccezioni che rappresentano i prodotti complessivi dell'evoluzione. L'evoluzione è dunque cieca in tutte le direzioni, ma tutte le direzioni nei tempi lunghi dell'evoluzione si riducono a poche direzioni eccezionali, fondamentali.

VIII] Se ogni processo della natura segue la legge del dispendio, lo farà però in un suo modo specifico, che dipende dall'ampiezza della casualità relativa ai singoli numerosi elementi del complesso fondamentale del processo stesso, che evolve mutando fino al suo termine naturale. La scienza può giungere alla reale conoscenza dei processi, ovvero alla conoscenza della dialettica caso-necessità dei processi, solo quando è in grado di determinare il rapporto probabilità-statistica, ossia quando questo rapporto è alla sua portata. E ciò dipende soltanto dallo sviluppo della scienza stessa. Così, ad esempio, è solo in tempi molto recenti che si è potuto determinare il rapporto probabilità­-statistica in relazione al sistema immunitario (anche se gli immunologi continuano ancora a fraintendere).

Applicazione e sviluppo delle tesi nella evoluzione della materia inorganica 

1] Se consideriamo la materia inorganica, oggetto della Fisica, vediamo immediatamente espressa nel secondo principio della termodinamica la legge del dispendio e della eccezione statistica. Il dispendio, qui, si manifesta fondamentalmente come dissipazione di energia termica in calore; e questo è il risultato più evidente del cieco movimento della materia (energia), che determina l'evoluzione delle più diverse forme materiali. Queste forme, pur rappresentando delle rarità statistiche, sono quantitativamente ancora immense, perché quasi infinita è la quantità di materia-energia presente nel big bang.

2] Di conseguenza, la materia luminosa (le galassie di stelle) rappresenta una percentuale minima dell'energia originaria, la maggior parte della quale si è "dissipata", in senso termodinamico e dal punto di vista evolutivo. Di contro, troviamo che la maggior parte dell'energia originaria è degenerata in materia oscura, la quale conserva l'energia dissipata in forma di energia potenziale gravitazionale.

3] L'atomo d'idrogeno, il fondamento della materia luminosa evolutiva, è il prodotto statisticamente raro del raffreddamento della originaria materia calda: esso rappresenta la "massificazione" di una parte molto modesta della materia originaria, la maggior parte della quale si è addensata in materia oscura, perciò invisibile.

4] Si possono riassumere nei seguenti punti le conseguenze della legge del dispendio in fisica:
a) la dissipazione di energia, all'inizio molto elevata, e via via in misura minore;
b) la massificazione dell'energia (atomi, stelle, galassie) che rappresenta il risultato eccezionale dell'evoluzione inconsapevole della materia nei tempi lunghi: qui il dispendio è sempre molto grande ma non immenso come nei primordi;
c) l'espansione nel cosmo della materia luminosa, che avviene con un movimento rotatorio estremamente rapido, perché il big bang ha lasciato come residuo degenerato un nucleo di materia oscura, incommensurabile per dimensione, massa e momento angolare: di conseguenza i grandi oggetti del cosmo ruotano attorno a questo centro, e attorno al proprio centro, rispettivamente per attrazione gravitazionale e per impulso originario;
d] l'evoluzione per frantumazione dei giganteschi residui del big bang, a partire dalle grandi nubi di gas d'idrogeno e per finire con le attuali galassie, passando attraverso varie fasi: dei Quasar, delle Seyfert, ecc., che lasciano come risultato i superammassi, gli ammassi, ecc. ovvero sistemi autogravitanti (contenitori di contenitori) ai cui centri si trovano masse oscure addensate, attorno alle quali ruota la materia luminosa;
e] la forma specifica dell'universo come contenitore di contenitori, nei quali ogni oggetto ruota attorno a un centro: la terra attorno al Sole, il sistema solare attorno al centro della galassia (via Lattea), la galassia attorno al centro dell'ammasso, l'ammasso attorno al centro del superammasso, il superammasso attorno all'origine: il big bang (supponendo terminato il numero dei contenitorj);
f] la forma di materia degenerata, oscura, che costituisce il centro di ogni contenitore, e che possiede una enorme energia potenziale gravitazionale, forma di conservazione dell'energia dissipata principalmente nei collassi gravitazionali e secondariamente nella lenta espansione della materia luminosa nel cosmo.

5] Come conseguenza dei punti di cui sopra, il concetto termodinamico di entropia deve essere messo in relazione con l'energia potenziale gravitazionale: entrambe crescono a spese dell'energia attiva (cinetica, termica e termonucleare).

6] A riguardo dei cosiddetti costituenti ultimi, occorre cambiare impostazione: poiché la materia evolve con grande dispendio, producendo come eccezioni statistiche gli atomi e i corpi, in seguito a una lunga serie di decadimenti, dobbiamo considerare l'esistenza reale di date forme materiali in rapporto sia all'energia che esse racchiudono come massa sia all'energia termica presente nell'ambiente. Una cosa sarà di conseguenza lo stato della materia nel big bang, altra cosa lo stato della materia nelle nubi d'idrogeno, altra cosa ancora lo stato della materia nei nuclei delle galassie, ecc.; la difficoltà si risolve così: ciò che esiste, esiste a una data energia interna ed esterna, ossia in un ambiente a equilibrio termico.

7] Occorre quindi pensare come cose qualitativamente diverse tra loro i quark, i nucleoni, gli atomi, le molecole: nel senso che le molecole sono qualcosa di meno della somma di atomi, e questi sono ancora meno della somma di nucleoni, e questi ultimi sono incommensurabilmente meno della somma dei quark che dovrebbero contenere. Per conseguenza occorre respingere la concezione dei "costituenti".

8] La realtà è che il dispendio di energia necessario alla formazione dei complessi (nucleoni, atomi, molecole) sottrae ai cosiddetti costituenti una parte, e spesso la maggior parte, della loro originaria energia; così, ad esempio, i quark possiedono un'energia di gran lunga maggiore di quella dei nucleoni che dovrebbero contenerli, perciò essi non possono trovarsi entro i nucleoni tali e quali erano allo stato "libero" nel loro ambiente termico naturale: ciò che si troverà nei nucleoni può essere solo una minuzia dell'energia originaria. E chi registra questo fatto è il cosiddetto "difetto di massa", che più propriamente dovrebbe essere denominato "difetto di energia".

9] Ne consegue che, a livello delle particelle, i cosiddetti costituenti rappresentano uno stato della materia differente qualitativamente dalla loro forma libera, stato che non può essere conosciuto in alcun modo, per il semplice motivo che, nel tentativo di "vederlo", forniamo un quantitativo di energia che lo riporta al suo stato originario (eccezion fatta per i quark, finora). In generale, possiamo concludere che ogni forma della materia, dal momento in cui si combina in una forma superiore, in un complesso, tramonta in esso, per usare un'espressione di Hegel.

10] Allora non dovremmo stupirci che esista un limite nella evoluzione della materia inorganica, un limite dal quale nessuna forma materiale possa tornare a sussistere libera, se non a condizione di un apporto di energia talmente elevato che solo il collasso finale dell'intero universo può permettere: questo limite è la massima densità raggiungibile dalla materia: ossia la materia oscura, scambiata a torto per  "buco nero", il cui difetto di massa mostra il tramonto definitivo dei protoni nell'attuale ciclo.

11] Per concludere, questo dispendio di energia, che si ritrova registrato nel "difetto di massa", è tanto maggiore quanto più si sale la scala delle energie, e probabilmente segue la legge dell'inverso del quadrato.

Applicazione e sviluppo delle tesi nella evoluzione della materia organica 

Riguardo alla materia organica, oggetto della biologia, riassumiamo nei seguenti punti le manifestazioni della legge del dispendio e della eccezione stistica.

1] Il dispendio si manifesta principalmente nello sperpero degli organismi, sperpero che assume le più diverse forme e dimensioni a seconda della scala dell'evoluzione: tanto maggiore quanto più si va in basso, tanto minore quanto più si va in alto.

2] Anche con la materia organica occorre prima di tutto distinguere i complessi dai loro numerosi elementi singoli. Ogni complesso è a sua volta un singolo elemento di un complesso superiore e, viceversa, ogni elemento di un complesso è a sua volta un complesso inferiore: cosi, ad esempio, un nucleosoma è sia un elemento basilare di un genoma eucariotico, sia un complesso ben definito di copie di basi; così un organo è sia elemento di un organismo animale, sia un complesso di cellule, ecc.

3] L'importante è comprendere che ciò che a un dato livello è preso come complesso rappresenta la necessità statisticamente determinabile, e ciò che è preso solo come singolo elemento rappresenta il caso indeterminabile, probabilistico. Quando si passa a considerare un livello di complessità superiore o, viceversa, inferiore, cambia di conseguenza anche ciò che attiene alla necessità e al caso: ad esempio, se consideriamo il genoma di un singolo linfocita B, esso rappresenta la necessità, ma le sue manifestazioni in ogni singolo linfocita B sono solo capricci del caso; però, come il caso relativo alle singole basi si rovescia nella necessità del genoma di ogni singolo linfocita B (ognuno diverso dall'altro), così il caso relativo ai singoli genomi linfocitari tra loro diversi si rovescia nella necessaria risposta immunitaria.

4] Questo modo di vedere, questa impostazione teorica permette di comprendere la difficile questione, mai finora risolta, della selezione naturale in rapporto al grandioso fenomeno della estinzione dei complessi viventi: specie, generi, famiglie... ordini, ecc. La selezione riguarda, ad ogni livello di complessità, oggetti organici che sono qualitativamente differenti: c'è infatti la selezione degli organi più diversi, ma c'è anche la selezione degli organismi più diversi che hanno in dotazione questo o quell'organo fra i tanti, e c'è anche la selezione delle specie più diverse che raggruppano questi organismi d'ogni foggia, ecc. La selezione delle specie è dunque soltanto un aspetto di tutta la faccenda, anche se rilevante; e, comunque, se si parla di selezione delle specie, occorre aver chiaro che essa, per necessità, deve riguardare le specie medesime e non i loro singoli individui: per le specie, gli individui rappresentano soltanto la sfera della casualità.

5] Ma, accanto alla selezione che rappresenta un risultato raro ed eccezionale, c'è l'estinzione che rappresenta la cieca ed assoluta necessità, fondata sul caso, della evoluzione biologica. L'estinzione è la più lampante manifestazione della legge biologica del dispendio; la sua misura è nota ormai da diversi decenni, ma i biologi sono degli "orologiai ciechi": o non la vedono, o la negano pur vedendola, o la vedono ma ne minimizzano l'entità e la portata. L'estinzione compare a tutti i livelli; qui di seguito consideriamo i due livelli di base, i complessi-organismi e i complessi-specie:
a) la notevole estinzione degli organismi ad ogni generazione era già stata rilevata da Darwin che, però, la considerò come un dato di fatto relativo a embrioni e neonati, sul quale non indagare; questa estinzione è tanto maggiore quanto più si scende la scala della evoluzione e ci si avvicina ai primordi della vita: l'esempio più noto di vita effimera degli organismi è data dai procarioti;
b) l'estinzione delle specie come fenomeno grandioso è un'acquisizione più recente: oggi si calcola che per ogni specie attualmente vivente circa mille siano scomparse dalla faccia della Terra, e si tratta di specie animali evolute nel Cambriano; l'esempio più noto in tal senso è l'ordine dei Dinosauri, estintosi in tempi geologici relativamente recenti.

6] Che cosa è dunque la selezione delle specie? E' una necessità cieca che deriva dalla casualità dei singoli organismi beneficiati dalle circostanze, sopravvissuti all'estinzione, che per moltiplicazione diventano dominanti protempore; allo stesso modo, se consideriamo i vari complessi superiori, i generi, le famiglie...gli ordini...infine i regni, la necessità della evoluzione è garantita solo statisticamente, sulla base della grande estinzione del maggior numero di specie comparse sulla terra: la selezione è dunque la necessità del prodotto biologico raro, eccezionale, l'eccezione statistica di un grande dispendio.

7] Perciò, la specie più evoluta in assoluto, l'uomo, altro non è che una rarità statistica (il più raro dei prodotti biologici) che, sebbene casuale nella sua insorgenza proprio in un dato pianeta e in dato periodo, doveva necessariamente uscire fuori prima o poi per la legge del dispendio e dell'eccezione statistica.

In conclusione 

La legge del dispendio, con il suo corollario: l'eccezione statistica,  non soltanto guida il reale movimento della materia inorganica e organica, ma permette di stabilire una volta per tutte che l'evoluzione della materia è ciecamente necessaria, non predeterminata, da nessuno voluta, e non determinabile mediante leggi di causalità diretta, secondo le vecchie modalità del determinismo ora riduzionistico ora olistico. L'evoluzione della materia può essere intesa come l'incessante lavoro prodotto dall'automovimento della materia stessa, che produce principalmente dissipazione (spreco) del proprio movimento, grazie al quale sorgono forme materiali inorganiche e organiche che continuamente si modificano.

Se la natura lavora in maniera incommensurabilmente dispendiosa, i suoi risultati più duraturi non possono essere realizzati per assoluta necessità, ma per una necessità relativa, la cui ragione è il caso stesso: il punto di partenza è sempre il caso relativo ai grandi, quasi infiniti, numeri di elementi materiali in gioco che nessuno e niente può organizzare e ordinare per uno scopo predeterminato. Così appare (all'uomo) un groviglio casuale; ma questo groviglio della natura manifesta il suo ordine e la sua necessità relativi nei fenomeni e processi complessivi che rappresentano le varie tappe dell'evoluzione. Questo ordine e questa necessità relativi diventano comprensibili mediante leggi statistiche e la riflessione dialettica.

E così l'uomo cosciente, il prodotto più elevato della natura, è saltato fuori dalla evoluzione con quella necessità statistica che ha per fondamento la casualità dei grandi numeri in gioco: senza una materia-energia praticamente infinita, senza uno sterminato universo ciclico, senza miliardi di miliardi di stelle con relativi pianeti, senza i pressoché infiniti atomi, senza il grandioso numero di molecole organiche sul pianeta Terra, senza le centinaia di milioni di diverse specie che si sono succedute in questo pianeta, insomma senza questo enorme apparato, l'uomo, come risultato dell'evoluzione spontanea, inconsapevole e cieca della materia, sarebbe inconcepibile.

Rimarrebbe soltanto la spiegazione della creazione volontaria e cosciente. Insomma, non ci possono essere vie di mezzo: o tutto si spiega con la dialettica caso-necessità che rende ragione del grande dispendio o tutto deve essere ricondotto alla creazione divina; ma, in questo caso, come spiegare il dispendio?

lunedì 15 luglio 2013

Kant filosofo della scienza: antiatomista, perchè antidogmatico

Kant filosofo della scienza: antiatomista, perchè antidogmatico

di Renzo Grassano

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Contrariamente a molti studiosi propensi a rivalutare il pensiero fisico di Democrito come antidogmatico rispetto a quello dogmatico di Aristotele (ed anche di Platone), Daniele Lo Giudice ha preferito configurare l'atomismo come una derivazione dell'eleatismo e quindi come una prosecuzione di quel dogmatismo con altri mezzi. Condivido la scelta, anche se con qualche riserva, ma in questa sede mi preme soprattutto evidenziare come Daniele sia corroborato da buona compagnia. Anche Kant fu molto critico nei confronti dell'atomismo, tacciandolo di dogmatismo metafisico. Non già per opporgli la fisica dialettica d'Aristotele, ma a tutto vantaggio di quella moderna, avviata da Galileo e sistemata da Newton.

Nell'opera I primi principi (fondamenti) della scienza della natura (traduzione italiana di Luigi Galvani, Cappelli, Bologna 1959) Kant tratteggiò col solito rigore il delicatissmo tema del rapporto tra scienza e metafisica.
Con tutto il rispetto dovuto a Kant, non possiamo non notare che anch'egli rimase sostanzialmente fedele alla fisica settecentesca e di essa riprodusse un analogo dogmatismo. Ma a questo circolo vizioso di dogmatismo che sorge per contrastare un vecchio dogmatismo forse non c'è rimedio possibile, visto che all'inizio di ogni ragionamento v'è sempre qualche postulato indimostrabile rispetto al quale o c'è evidenza dei sensi, o c'è fede. 
Lo scetticismo, ad esempio, nel tentativo estremo di negare la possibilità di ogni conoscenza, finisce con l'essere persino più dogmatico (e contradditorio) delle dottrine fideistiche che vorrebbe combattere. Mi fosse possibile intervistare Sesto Empirico, per esempio, mi piacerebbe chiedergli come si fa ad un tempo essere medici e scettici, quindi del tutto privi di una scienza sillogistica della salute e della malattia!
Ma, ritornando a Kant, eccoci subito al centro della questione.
Era fermamente convinto che la meccanica razionale fosse il fondamento di tutta la fisica. 
Oggi, non c'è scienziato che condivida questa opinione, ma allora questo tipo di pensiero era davvero all'avanguardia.
Fiducioso, come del resto lo sono io e lo è Daniele Lo Giudice, nei poteri infallibili del calcolo e della matematica, egli affermò che non c'è conoscenza determinata di fatti ed eventi particolari che non «conterrà tanta scienza propriamente detta quanta è la matematica che in essa può venire applicata.» (1)
Però, avanza una riserva. La matematica è la garanzia della scienza, ma non arriva a chiarire il fondamento stesso delle scienze. A tale fine la metafisica è indispensabile. Solo la metafisica, infatti, è in grado di spiegare in quale modo proceda la costruzione dei concetti e di portare così in luce come la matematica stessa sia applicabile alla natura. In altre parole: occorrono pensieri extramatematici ed extra disciplinari per giustificare e fondare la disciplina stessa.
Però, accadde un fatto singolare e spesso reiterato: « Tutti filosofi della natura che vogliono procedere matematicamente nelle loro ricerche, si sono perciò sempre serviti (benchè inconsciamente) di principi metafisici, e dovevano servirsene, anche se protestavano solennemente contro ogni pretesa della metafisica sulla loro scienza.» (1)

A tale rifiuto presiede una concezione erronea, ben descritta con queste parole: «illusione di potersi immaginare a piacere tutte le possibilità e di giocare con concetti che non si lasciano nemmeno rappresentare nell'intuizione.» (1)
In sostanza, Kant ammette che solo la metafisica può dare alla matematica i suoi concetti fondamentali, che è come ammettere che fu solo la metafisica a fornire la geometria di concetti quali quelli di punto, linea, retta, curva, angolo, perimetro o superficie, circonferenza o diametro

A commento di ciò, in uno scritto di magistrale pregnanza, scrisse Ludovico Geymonat: «Non è questa la sede per discutere se la situazione denunciata da Kant si sia o no protratta (sia pure in termini alquanto diversi) fino a tempi molto recenti; certo è che essa costituì effettivamente - per lo meno nel secolo XVIII - un impedimento assai notevole al libero sviluppo della ricerca scientifica, e che giustificatissima fu quindi la decisione del Nostro di combatterla con energia. Se oggi non possiamo più seguirlo nel modo di condurre questa battaglia, ciò non significa tuttavia che che non ne approviamo lo spirito animatore. Un punto soprattutto ci persuade: l'energica affermazione kantiana che non basta "protestare" contro la metafisica pe riuscire in realtà a non farla; questo può anzi essere, in taluni casi, il più comodo artificio per contrabbandare (agli altri e, peggio ancora, a se stessi) una cattiva metafisica. » (2)

Resta che, secondo Kant, i fisici matematici non possano fare a meno del concetto metafisico di materia, insieme a quello di spazio e di vuoto.
Notevole, in questo quadro, che Kant ammetta che solo la materia e lo spazio relativo possano essere oggetto di esperienza, mentre il concetto di spazio assoluto non lo è.
Esso "non può essere oggetto d'esperienza". "Lo spazio assoluto non è dunque niente in sè e non è affatto un oggetto." 
Se parliamo di spazio assoluto è solo perchè, uno volta ammesso e riconosciuto uno spazio relativo, potremo sempre pensarne uno più grande che lo includa, od uno più piccolo che lo escluda. Forse potremmo compiere lo stesso ragionamento sul tempo assoluto e quello relativo. Con ciò siamo comunque al cuore del rapporto tra la relatività galileana ed i concetti assoluti di Newton. 
Illuminante in tal senso sono le nozioni di movimento assoluto e relativo, ovvero reale. Da qui venne la distinzione tra composizione dei movimenti e composizione delle forze, tra suddivisione dello spazio e suddivisione della materia.

«Ma il punto più originale di tutta l'opera in esame - scrive Geymonat - è costituito dalla critica alla nozione di atomo e, di conseguenza alla concezione meccanicistico-atomistica della natura. Anche se la concezione "dinamista" contrappostale da Kant è ben lungi dall'accontentarsi ( e del resto non riuscì a persuadere neanche i contemporanei del Nostro), questa debolezza della pars construens non toglie nulla al valore della pars destruens. E' un valore che dipende sia dalle osservazioni particolari, sia più ancora dal deciso atteggiamento metodologico che essa rivela: l'atomismo costituisce - per Kant - il frutto più manifesto del dogmatismo metafisico inconsapevolmente accolto dai fisici matematici (sotto il manto delle loro clamorose proteste antimetafisiche) e quindi la battaglia contro di esso assume il significato di battaglia generale contro tutti gli equivoci della cattiva metafisica.» (2)

Perchè Kant vide nell'atomismo una cattiva metafisica?
La risposta è nelle sue stesse parole: l'atomismo «consiste essenzialmente nell'ammettere un'assoluta impenetrabilità della materia primitiva, un'assoluta omogeneità di questa sostanza in cui non sussistono che le sole differenze di figura, e una indistruttibilità della coesione della materia in questi corpuscoli fondamentali.» (1)
Kant si dimostrò disposto ad accettare o quantomeno a discutere l'esistenza del vuoto assoluto, "dato che esso è necessariamente posto prima di ogni materiale", ma respinse recisamente il dogma dell'impenetrabilità e della indistruttibilità della materia atomica. Asserì,che si trattava di affermazioni prive di qualsiasi possibilità di verifica, "tutte cose che nessun esperimento può né determinare né rivelare". E le battezzò spregiativamente come qualità occulte.
Come conseguenza nefasta dell'atomismo, inoltre, Kant vide acutamente che da esso derivava una spiegazione altrettanto dogmatica per spiegare la differente densità dei diversi materiali. Tutto si spiegava con la diversa composizione di vuoto e di pieno di ogni corpo, come a dire che l'essere è composto di essere e non-essere.

All'atomismo dogmatico Kant contrappose la sua visione "dinamista" e poi la teoria dell'etere sottilissima in cui la forza repulsiva sarebbe infinitamente superiore a quella attrattiva. Certo, dogmatismo metafisico anche questo, niente più che una conseguenza d'Empedocle anzichè di Parmenide.
Per questo il dubbio rimane: si può davvero sfuggire alla morsa metafisica quando si pigia sull'accelleratore di una nuova teoria fisica?


note:
1) Immanuel Kant - I primi fondamenti della scienza della natura - Cappelli, Bologna 1959
2) Ludovico Geymonat - La ragione - Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1994